Internazionale

Beirut sogna Francesco 20 anni dopo Giovanni Paolo II

Nel vasto spazio che va dall’Indonesia al Marocco c’è una sola statua in onore di un Papa. Si trova nel cuore del cosiddetto «quartiere musulmano» di Beirut, nell’elegante distretto di Clemenceau. Raffigura Giovanni Paolo II ed è stata inaugurata dalla municipalità della capitale libanese per ricordare la storica visita che ebbe luogo esattamente 20 anni fa, sul finire del mese di maggio del 2007. La scelta del luogo dove collocarla è stata particolarmente felice, perché da lassù, tra modernissimi grattacieli e gru al lavoro per completare nuove costruzioni, si vedono anche i resti del famigerato «Holiday Inn», dove si è combattuta una delle più importanti e feroci battaglie della guerra civile libanese, uno dei pochissimi edifici non ricostruiti nel centro cittadino. Un panorama essenziale per inquadrare la memoria di una visita che ha segnato la storia del Libano post-bellico, indicandolo come «un messaggio per tutto il Medio Oriente». Ma quel «messaggio», oggi è un sogno che resiste nella memoria di pochi, o una prospettiva tanto viva quanto cruciale?

 

Questa storia ottocentesca resiste nella realtà, sebbene Hamra oggi sia impoverita anche vicino ai suoi caffè letterari dai segni della presenza di tante milizie settarie che con arte e letteratura hanno poco a che fare. Ciò nonostante basta passare in qualche agenzia immobiliare, che in questa zona sono numerosissime, per scoprire un dato sorprendente: molti quartieri di Beirut dalla marcata prevalenza confessionale sono accomunati dal fatto che le strade dove gli immobili valgono di più sono quelle meno omogenee, o più miste. Dunque, il Libano è ancora il messaggio di convivialità di cui parlò Giovanni Paolo II al termine del Sinodo per Libano?

 

Chi di quel Sinodo può essere considerato la memoria storica è il sunnita Muhammad Sammak, che ricorda con emozione: «La mia ammirazione per Giovanni Paolo II non può essere spiegata dalla fine, dal suo viaggio qui in Libano, ma dall’inizio, da quell’evento straordinario di un Sinodo della Chiesa universale convocato per parlare di un Paese poco più grande dell’Abruzzo. Quando il Vaticano lo decise inviò una lettera ai quattro mufti libanesi, sunnita, sciita, druso e alawita, invitandoli a prendere parte ai lavori. Non ad assistere, ma a prendervi parte… La risposta fu un elegante: «Non possumus». È un evento cristiano che seguiremo con attenzione, ma non possiamo parteciparvi, questo fu il senso della risposta. Appena lo seppe mi chiamò Rafiq Hariri, dicendomi che era una catastrofe. Dovevo fargli cambiare idea perché con quell’invito irrinunciabile si apriva una prospettiva storica di riconciliazione. Li chiamai, e per fortuna si convinsero. Andammo a Roma, e cominciò un’avventura importantissima. Ricordo tanti incontri con monsignor Béchara Raï, al tempo vescovo di Byblos, e George Khodr, vescovo melchita, come ricordo poi le richieste di chiarimenti che in certi momenti cruciali rivolsi al cardinale Scott. Ma quando il testo conclusivo ci fu mandato da Roma, quello che avrebbe firmato il Papa come esortazione apostolica dal titolo «Una speranza nuova per il Libano», tutti notammo alcuni problemi. Inviammo così una decina di osservazioni, e tutte vennero prese in considerazione. Si arrivò in questo modo a un documento ed a un viaggio epocali». E in cosa stava questo dato epocale? «Nell’annuncio, in anni difficili, che i cristiani sono protagonisti nella cultura araba e credono nella riconciliazione, tra di loro e tra loro e i musulmani, cittadini dello stesso Paese».

 

La convivialità veniva riconosciuta nella cittadinanza, e quindi negli Accordi di pace che sanciscono come cristiani e musulmani possano vivere insieme nella democrazia consensuale, quella per cui ci si riconosce partner uguali, con il 50% degli eletti per ciascuno a prescindere dal fatto demografico, con un presidente cristiano e un premier musulmano, frutti di un reciproco riconoscimento. Questa ricostruzione rischia però di essere troppo diplomatica, di celare l’enormità dietro parole che può capire solo chi sa.

 

A parlare con estrema chiarezza è il professor Khalil Helou, maronita, che ha fondato dopo quel viaggio un’associazione che prende nome proprio dal motto di Karol Wojtyla, «Il Libano è un messaggio» . Già generale, oggi cattedratico di farmacologia all’Università dei Gesuiti, Saint Joseph, il professor Helou, seduto in un caffè di Hamra, ricorda: «Cosa è successo in Libano? Che dopo decenni di crescita comune abbiamo cominciato tutti a combattere una guerra esistenziale. Noi cristiani temevamo che l’arrivo dei palestinesi avrebbe trasformato il nostro Paese e noi saremmo scomparsi. Io stesso ho combattuto per questo. Ma è stato per questo che abbiamo combattuto sei guerre inter-cristiane? O per la cecità e la sete di potere dei nostri leader? Io da alto ufficiale fedele al generale Aoun le ho combattute tutte quelle guerre, anche quella che noi, cristiani fedeli al generale Aoun, combattemmo contro i cristiani delle Forze Libanesi. Vede, gli accordi pace di cui le ha detto Sammak ci hanno salvato e ci hanno consentito di avere di nuovo una prospettiva, ma la politica rimase agli invasori siriani, che dalla fine della guerra, nel 1990, ci hanno regalato silenzio, oppressione, dominio. Poi nel 1997 è arrivato Giovanni Paolo II e per la prima volta un fiume di cristiani si è riversato per strada. Ognuno lo fece con le sue bandiere, ostili l’una all’altra, ma che per la prima volta nella storia si ritrovarono nella stessa piazza. Il muro si è rotto così! Non ci crede? Rilegga i giornali di allora: pochi mesi dopo quel grande raduno, per la prima volta nella storia post bellica, c’è stato un enorme corteo di protesta per la proibizione di un’intervista televisiva: quindi, nel 2000, il patriarca maronita Sfeir diede voce alla società civile impaurita, chiedendo il ritiro dell’esercito invasore, poi firmò la riconciliazione con i drusi, avviò tanti riavvicinamenti, e tutto questo lo fece nel nome del messaggio comune: il Libano, patria comune, di tutti!».

 

Ben presto però i politici, anche cristiani, hanno ripreso a combattersi per calcoli e interessi, loro o altrui. È stato allora che Khalil Helou, ancora in servizio nell’esercito, ha ricevuto la telefonata di un alto esponente del campo cristiano avverso, negli anni della guerra civile: l’uomo che lo chiamava aveva combattuto contro di lui, ma lo faceva per sollecitarlo a leggere l’esortazione apostolica. «Non l’avevo mai fatto, e rimasi sorpreso. E ho capito. Così noi due, io e l’ex ufficiale del campo che avevo combattuto ci incontrammo e pian piano, con il sostegno prima di amici e poi di alcuni vescovi, abbiamo fondato la nostra associazione. Proponiamo a tutti di capire il presente partendo dalla lettura dei nostri errori del passato, non da quelli degli altri. E lo facciamo tra noi cristiani, e tra noi e i musulmani. Così entriamo in contatto anche con i fondamentalisti, riusciamo a portare ovunque la nostra Ong «Credere», per insegnare ai ragazzi a risolvere i conflitti con il dialogo. Conflitti personali, non ideologici, o teorici. Mi guarda perplesso? Mi crede uno che vede il dito e non la luna? I problemi certamente sono enormi, ma sta nascendo un nuovo Libano, i nostri giovani non credono più nelle appartenenze politiche, ma nella società civile: vogliono incontrarsi, difendere insieme lo spazio pubblico, pulire le strade. È chi non capisce questo che vede il dito ma non vede la luna. Infatti la lista elettorale autogestita da questa società civile, contro l’establishment politico, a Beirut ha preso il 40% dei voti!».

 

Come non chiedergli, prima di salutarlo, cosa pensi di una possibile visita di Papa Francesco nel Paese. «Magari! Sarebbe un nuovo 1997, ne sono sicuro. Vede, Papa Wojtyla era il Papa del Novecento, lottava contro il comunismo sovietico, il totalitarismo. Francesco è il Papa del terzo millennio, il Papa della lotta alla corruzione, alle mafie, che hanno generato questa indifferenza globale. Nel Novecento eravamo tutti attivisti, oggi siamo soli davanti a un telefono e alla corruzione che dilaga. Francesco è il solo leader globale che può dare a questa sete di rivolta mondiale una bussola, volgerla da rabbia a risveglio etico : e la sua popolarità tra musulmani e cristiani farebbe ripartire il «Messaggio Libano» in tutto il Medio Oriente. Io ne sono convinto».

 

Khalil Helou esagera? Nel suo centro studi a due passi dal Parlamento il professor Sami Nader, maronita, riflette sull’urgenza di andare oltre le appartenenze: «Come è possibile non chiedersi per quale motivo davanti all’emergenza terrorismo i musulmani moderati, che sono tanti, non alzino la voce, non insorgano. Non capiscono che sono loro il vero obiettivo dei terroristi? Certo che sì, lo capiscono, ma restando nel loro campo sono vittime di un giustificazionismo storico, che ricorda i guasti del colonialismo, le piaghe della miseria… Tutto vero, ma insufficiente a dargli la spinta per respingere il nemico e vincere la sfida». «Sami non ha torto – riflette il suo collega cattedratico Antoine Courban – e per questo ritengo da tempo che sia l’ora che il Libano aggiorni il suo messaggio, creando un campo interconfessionale dei moderati, di tutti i moderati. Ognuno ha i suoi estremisti, ma solo noi moderati possiamo unirci, prima che sia troppo tardi».

 

Il sogno di alcuni, forse, è che l’autorità morale di Papa Francesco possa offrire un collante ai moderati, da Beirut. Per questo un amico mi sussurra, riportandomi a prendere la macchina che ho lasciato parcheggiata vicino alla statua di Giovanni Paolo II: «Tante volte questo Papa ha parlato di mafie, di corruzione, a Fatima poi ha parlato dei suoi «fratelli nel Battesimo e in umanità». Se lo facesse da qui…».

(VaticanInsider)

19 Giugno 2017 | 18:10
Tempo di lettura: ca. 6 min.
beirut (13), Papa (1255), viaggio (45)
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