Bauman: Contro il fascismo 2.0

Quando, un anno e mezzo fa, a margine di un’intervista pubblica che mi era stata affidata, mi chinai su Bauman che, seduto, stava raccogliendo gli applausi di un migliaio di persone, gli posi questa domanda: «Professore, lei vede all’orizzonte il pericolo di un nuovo, innovativo fascismo? Un fascismo 2.0, per intenderci?». A capo chino, e fissando il libro che gli avevo sottoposto per una dedica, rispose: «La domanda è molto interessante. Sì, il rischio è presente, anche se non dobbiamo pensare ai fascismi così come li abbiamo conosciuti. Si tratta di un fascismo antropologico, intrinseco, interiorizzato. Noi siamo fascisti di noi stessi».

Tra le mani aveva Babel e subito pensai che la prima forma di fascismo stava proprio nella babele linguistica, nella mistificazione dei significati, nella liquidità della parola. Qui volevo arrivare. Volevo chiedergli proprio se dopo la società, dopo l’individuo, la liquidità non avesse colpito la parola stessa, togliendole qualsiasi forza, qualsiasi legame con le cose, con la realtà. E la parola liquida è davvero l’anticamera della perdizione.

Bauman sorrideva. La dedica era venuta spontanea: «Grazie per le tue domande cercatrici».

Così si dipanava il pensiero e la liquidità, il suo geniale «modello», prendeva forma, si solidificava — potremmo dire — non più nell’orizzonte sociologico, ma andava in profondità, diventava antropologico. Credo di aver colto la malinconia dell’uomo che comprende, che vede, che nella vecchiaia e forse anche nella prospettiva della morte, scuote la testa e comprende d’essere stato superato dagli eventi. Fascismo 2.0: quali erano i connotati di tale nuova condizione umana? In primis la forza della delazione. La comunicazione digitale è divenuta lo strumento principe di tale pratica. «Non servono più gli spioni. Ciascuno di noi è un delatore». Cattura comportamenti, fragilità, errori. Crea nemici e li mette alla berlina di un pubblico esteso. Ma vi è ancora di peggio: «Ciascuno di noi è delatore di se stesso», offre all’opinione pubblica varchi straordinari per l’invasione della sfera privata. Siamo collaboratori convinti di questo nuovo fascismo. Ci mettiamo a nudo. «Il mondo sa tutto di noi». Alla radice mi pareva di comprendere che la questione stesse nella liquidità della moralità. Una parola che Bauman avrebbe probabilmente rielaborato laicamente liberandola dalle secche del perbenismo per ridarle la forza e la radice dell’essenza dell’umano. Come dire che il bene e il male è scritto nel cuore dell’uomo, prima della sua liquefazione.
E tuttavia, proprio la mediazione digitale, la forza dello strumento, asettico, portatile, utilizzabile in ogni contesto, ha portato l’uomo a liberarsi dalla domanda decisiva: quel che faccio è bene o male? Posso insultare una persona — ad esempio — mentre sto facendo del bene, rubando alle mie azioni positive solo pochi secondi. La percezione è quasi nulla, la partecipazione infinitesimale, il risultato demoniaco. Ma Bauman si soffermava su un altro aspetto: la velocità della liquefazione ormai vicina alla gassificazione. Il fattore tempo era una variabile decisiva perché non permetteva — nel suo ragionamento — prese di coscienza, verifiche empiriche, ferite da cui guarire, morti da cui risorgere. «Tutto va troppo in fretta, e noi non ci accorgiamo di esistere e, un giorno, di aver vissuto».

La questione era per Bauman ovviamente innanzitutto culturale: possedere e illudersi di possedere. Costruire sulla roccia e costruire sulla sabbia. Così, paradossalmente, l’accesso all’infinità dei saperi ci ha reso più ignoranti anche se più reattivi ad estrarre un telefono per dare prima degli altri la risposta alla domanda sul tavolo.

Ma la cultura è innanzitutto esperienza, memoria e racconto. «Chi è capace oggi di far diventare carne la parola?» si chiedeva Bauman in Babel. La questione stava tutta qui. La presunzione di possedere il mondo perché archiviato in un taschino, ci ha reso così evanescenti da non sapere più chi siamo e perché siamo. «La liquidità non ha preso solo il pensiero, ha preso i nostri sensi, il nostro cuore». Questo è il fascismo 2.0, di fronte al quale risulta quasi impossibile qualsiasi resistenza. Il Novecento è davvero finito — ho pensato allora. E oggi che Bauman è morto, ne sono certo. Il Novecento è finito, perché nessuno sa più riconoscere il mondo dal suo odore.

(Osservatore Romano)

12 Gennaio 2017 | 16:30
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