I bambini di Anna, la «Mamma Africa»

Gli occhietti della bambina sbucano fra l’erba alta. Avrà tre anni. Guarda verso il Centro dei bambini abbandonati. Anna la vede, s’interrompe: «Vedi quella piccola? La madre, Farida, è morta poche settimane fa. Di parto. Il cordone ombelicale era avvolto al collo del bambino. Era una dipendente del nostro centro. Avessimo avuto un ecografo decente non sarebbe successo. Ma il nostro è così vecchio che a malapena si vede se il bambino è podalico. Non si può morire così. Eppure in Tanzania avviene. Verrà un giorno in cui non accadrà più».

Anna Dedola, la responsabile dei progetti del Cope (Cooperazione Paesi emergenti), è qui per questo. Ha scelto la Tanzania anche per questo. Perché non accada più che la sua vicina di casa non sia in grado di accudire il suo bambino, Francesco, che ora è in affido a lei e al suo fidanzato Isack, che ha conosciuto nel 2012 e da cui ha avuto Frida, che adesso ha due anni. Francesco presto verrà definitivamente adottato. Anna, originaria di Telti, un paesino a 12 chilometri da Olbia, ha sposato la Tanzania in molti sensi: come scelta di vita, dato che è qui da 7 anni, e per la vita, perché il futuro marito è tanzaniano come i suoi due figli.

Anna è il Volontario dell’anno del Premio Focsiv. Per venirla a conoscere abbiamo attraversato una buona parte del Paese africano: siamo a Nyololo, a dodici ore di macchina da Dar es Salaam, a oltre 6 mila chilometri dall’Italia e dalla sua Sardegna. «Per noi isolani, di là dal mare si è sempre lontani. Anche quando partii per frequentare l’Università di Torino, mia madre mi salutava col fazzoletto zuppo in mano».

Anna è figlia di un pastore e di una casalinga. Lo racconta con naturalezza, così come spiega che la sorella è ricercatrice al Sant’Anna di Pontedera, si occupa di robotica e scienze biomediche. «Due figlie e tutt’e due molto lontane», dice sorridendo. «Talvolta i miei genitori, scherzando, dicono che se l’avessero saputo non ci avrebbero fatto studiare…». Anna è architetto. La tesi la portò a studiare i sistemi di costruzione tradizionali africani per migliorarne le tecniche. Venne per questo in Tanzania. E vi tornò perché la missione dei Cappuccini di padre Egidio Guidi le chiese di progettare un asilo. È «approdata» al Cope nel 2015, in questo remoto paesotto a 1.800 metri d’altitudine, come responsabile dei due progetti che l’Ong siciliana porta avanti a Nyololo: l’ospedale e il Centro dei bambini, 48 dipendenti il primo e 20 il secondo.

La cittadina è divisa in due: Nyololo Njapanda, che letteralmente vuol dire «sulla strada», la direttrice che collega Dar es Salaam con Zambia e Malawi; all’interno c’è Nyololo Shuleni, un agglomerato di povere casupole senza elettricità. È una cittadina povera di uno Stato fra i più poveri del mondo. Al padre della patria Julius Kambarage Nyerere i tanzaniani devono l’indipendenza dai colonialisti e quasi 60 anni di pace. Ma non certo il benessere. La metà della popolazione è sotto la soglia di povertà e quasi tutti vivono di un’agricoltura di sussistenza. La speranza di vita è di 51 anni, con un tasso di mortalità infantile pari al 104 per mille. Quasi metà degli abitanti non ha accesso all’acqua e solo il 2% dei giovani prosegue gli studi dopo la scuola primaria. Il Paese africano è al 126° posto per tasso di sviluppo umano su 173.

Questo è il Paese d’adozione di Anna. «Una vocazione? Una scelta? No, direi tante piccole scelte, che mi hanno portato qui», dice. «Tutti cerchiamo un luogo dove stiamo bene, e alla fine vi restiamo. Poi nel tempo si cambia e le persone che incontri ti cambiano. Ti ritrovi un giorno che senti come casa tua un luogo che può essere così lontano, in tutti i sensi, da quello dove sei cresciuta. E in fondo anche la fede l’ho ritrovata lungo questo strano percorso. L’ho riscoperta attraverso quello straordinario missionario di padre Egidio, e poi nella fede forte e profonda dei tanzaniani».

Ora è arrivata a Nyololo anche Patrizia Giangrande, medico chirurgo. Patrizia per venire qui si è licenziata, in Italia, dall’ospedale dove lavorava. Anche lei si divide fra l’ospedale e il Centro dei bambini abbandonati, il «Sisi Ni Kesho», come l’hanno chiamato, che significa «Loro sono il futuro». I problemi che Anna e Patrizia affrontano ogni giorno sono quelli della povertà: malnutrizione infantile, alcolismo diffuso, donne maltrattate, un’altissima percentuale di sieropositivi (che sfiora il 30%). «Basta poco per migliorare la vita di questa gente», sottolinea Anna. «Per esempio, in un solo anno abbiamo quasi azzerato i casi di bambini affetti da Hiv contratto al momento del parto dalle madri, trattandoli con la Nevirapina, il farmaco che evita la trasmissione verticale del virus».

Anche al Centro Sisi Ni Kesho, in fondo, vengono accolti i figli della povertà: bambini orfani di Aids, di alcool, di giovani madri sole che non ce la fanno. Anna racconta la storia della «bambina della scatola»: «La mamma era andata a partorire in un campo. Ha messo la neonata in una scatola coperta da una bacinella di plastica e l’ha lasciata lì. È passata una vecchietta, ha visto la bacinella ed è andata per prendersela. Così ha trovato la neonata. È arrivata qui con un biglietto scritto a mano dall’assistente sociale, a bordo di un mototaxi. L’anziana donna non sapeva leggere, ci ha solo allungato il biglietto. La piccola si chiama Atu, ha un anno e sta benissimo. Con lei ci sono in questo momento altri 32 bambini. Altrettante storie terribili. Non si può essere abbandonati così. Non può averla vinta la povertà».

EDIZIONE 2017. QUEST’ANNO UN PREMIO TUTTO IN ROSA

L’edizione 2017 del Volontario dell’anno, il riconoscimento istituito da Focsiv (la Federazione degli organismi di volontariato di matrice cristiana), vede premiate quest’anno tutte donne, nelle tre diverse categorie. Per il Volontariato internazionale, come raccontiamo in questo reportage realizzato a Nyololo, in Tanzania, il premio è andato ad Anna Dedola. Quello al Volontario del Sud è stato assegnato ad Alganesc Fessaha, di origine eritrea ma da molti anni milanese, medico e specialista in medicina ayurvedica. Alganesc è fondatrice dell’Ong Gandhi Charity. Da molti anni si batte per salvare i profughi e i rifugiati che cercano di raggiungere l’Europa, affrontando lunghi ed estenuanti viaggi in tutto il Nord Africa. Infine, il riconoscimento al Giovane volontario europeo è andato a Khadija Tirha, 25 anni, nata in Marocco, ora cittadina italiana e torinese (dov’è giunta a 6 anni con la sua famiglia). Da sempre è impegnata nel volontariato. Una scelta dettata dal bisogno di sentirsi cittadina attiva del tessuto sociale della propria città, partecipe al miglioramento del bene comune della comunità stessa. La sua attenzione sin dall’inizio è stata rivolta alla costruzione di una società coesa e inclusiva, facendosi promotrice di ponti per il dialogo interculturale e religioso. Questione che sente particolarmente cara sia come musulmana praticante che come cittadina italiana.

di Luciano Scalettari

Famiglia Cristiana – 5 dicembre 2017

 

1 Gennaio 2018 | 12:20
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