Addio, Fabo, non siamo riusciti a darti nessuna ragione per vivere

da Famiglia Cristiana

di Antonio Sanfrancesco
antonio.sanfrancesco@stpauls.it

Forse di fronte ad una morte così tragica e disperata come quella di Dj Fabo dovremmo solo tacere. Perché inimmaginabile, per crudeltà e strazio, è stata la prova alla quale è stato chiamato Fabiano Antoniani, 40 anni il 9 febbraio scorso, «immobilizzato in una lunga notte senza fine», come ha detto lui stesso, in seguito a un grave incidente stradale nel 2014 che lo ha reso cieco, tetraplegico e gli ha tolto pure la parola. «Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo», ha scritto Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni annunciandone la morte su Twitter poco dopo le 11.40 di lunedì. E Roberto Saviano su Facebook ha commentato così: «In Italia la libertà di scelta è violata. I continui rinvii del parlamento sul testamento biologico evidenziano una mancanza di volontà politica a riconoscere e affermare i diritti delle persone. Rendere impossibile l’eutanasia significa violare il diritto più importante: quello di decidere della propria vita e porre fine al proprio dolore». Ma la morte di un uomo non può mai essere utilizzata per combattere battaglie politiche. Né può essere strumentalizzata all’interno del dibattito politico e parlamentare sulla legge sul testamento biologico che, va ricordato, è cosa ben diversa dall’eutanasia. Nessun articolo della legge che arriverà nell’Aula della Camera il 6 marzo prevede esplicitamente l’autorizzazione del suicidio assistito e la polemica sui presunti ritardi del legislatore ignora il fatto, fondamentale, del punto sul quale l’iter della legge si è arenato, cioè valutare se è possibile assimilare l’idratazione a una terapia e la conseguente possibilità di sospenderla per determinare la morte del paziente. Far morire di sete una persona sarebbe una «dolce morte»?

Inoltre, con questa legge non si mai discusso di introdurre l’eutanasia, rivendicata esplicitamente solo dai Radicali, ma forme di terapia palliativa che arrivano fino alla sedazione profonda per evitare a pazienti incurabili di soffrire senza alcuna speranza. Forse, nonostante la bagarre che si è scatenata in questi giorni, è il caso di dire che introdurre il «diritto» al suicidio nella nostra legislazione non significa riconoscere la libertà individuale.In Parlamento le varie forze politiche stanno discutendo sulla natura e i limiti dell’idratazione e alimentazione artificiali e sulla possibilità di raccogliere una volontà preventiva e revocabile da parte del paziente di non sottoporsi all’accanimento terapeutico rendendo meno problematica la decisione finale del medico e togliendo ai familiari responsabilità improprie. Autorizzare il suicidio assistito è un’altra cosa.La morte di un uomo è sempre una sconfitta. Nel caso di dj Fabo non perché l’Italia non gli ha dato la possibilità di morire ma perché nessuno di noi è stato in grado di offrirgli una ragione per vivere e andare avanti. Da qui, forse, bisogna ripartire: di fronte al dolore, al limite, alla sofferenza una società davvero civile non dà l’eutanasia ma si sforza di dare un senso alla fragilità dell’uomo.

 

Se ti avessi conosciuto prima di questi momenti, probabilmente non avresti invocato la morte

di Laura Badaracchi
È notizia di queste ore: Fabiano Antoniani, più conosciuto come dj Fabo, ha chiesto a Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni di accompagnarlo in una clinica svizzera, in cui si sta sottoponendo a visite mediche e sta valutando di porre fine alla sua vita con l’eutanasia. Diventato tetraplegico e cieco in seguito a un incidente stradale successo nel 2014, il 39enne aveva lanciato un video sui social con la voce della sua fidanzata per chiedere di morire legalmente. Informato della notizia, don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco che da 50 anni accoglie persone disabili, rivolge a Fabo questo messaggio:

«Caro Fabo, non ti conosco personalmente ma ti sono vicino in questo momento. Da tanti anni vivo insieme a persone con disabilità gravi. Nella Comunità di Capodarco (Fermo) abbiamo avuto esperienza di ragazzi e ragazze, giovani come te o più di te, che andavano verso la morte e l’esperienza dice che la cosa più brutta in queste fasi è la solitudine.

Se la persona è circondata di affetti e presenza, chiede di essere accompagnata fino alla fine, con tutte le cure possibili, ma in modo naturale, perché comunque ama la vita. Quando questa spinta viene meno, è per il senso di solitudine, inutilità, vuoto che si sperimenta, anche se si ha vicino l’affetto di familiari e di persone care.

Se sei arrivato alla decisione di andare in Svizzera per mettere fine alla tua vita, ti senti solo. Sarebbe stato necessario un gruppo più consistente accanto a te, un’esperienza di vita intensa anche con la disabilità che hai acquisito a causa dell’incidente.

Se il calore della vita viene meno, la morte sta bussando alla tua porta, ma la morte ha comunque una sua dignità quando arriva naturalmente. Occorre un’infinità di compassione e comprensione in questi momenti.

Mi dispiace molto che tu abbia scelto di lasciarti andare, anche se ancora non lo hai deciso definitivamente, ma capisco che quando uno si sente inutile e allo stremo delle forze possa vedere la morte come una liberazione.

Ti posso raccontare l’esperienza di una ragazza della nostra Comunità che ci ha lasciato: ci ha messo otto giorni per morire, assistita con amore, con il coinvolgimento di un intero gruppo accanto a lei. Ed è spirata serenamente. Si va verso la morte serenamente se nella vita c’è un significato che possa dare non dico speranza, ma sicuramente pace. Il messaggio che do a chi ti sta vicino è di mettere sempre vita restando a fianco a chi sta soffrendo come te.

Se ti avessi conosciuto prima di questi momenti, io e la mia Comunità, probabilmente non avresti invocato la morte.

Ti abbraccio, don Vinicio».

27 Febbraio 2017 | 15:29
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