Diocesi

Il cambiamento: conferenza di Absi e Sacrificio Quaresimale

Il cambiamento, in qualunque ambito esso avvenga, suscita reazioni contrastanti: chi lo teme e chi invece ne è affascinato. Se ne è parlato ieri sera in una bella conferenza al Liceo cantonale di Bellinzona, organizzata da Sacrificio Quaresimale, in collaborazione con l’Associazione Biblica della Svizzera italiana, per presentare la campagna ecumenica della prossima Quaresima. Sono intervenuti il prof. Carmine Tabarro, il professor Ernesto Borghi e Daria Lepori. Vi proponiamo un estratto della conferenza.

1. Introduzione: diventa anche tu parte del cambiamento (di Daria Lepori1)

In questi anni di inizio millennio, l’umanità è confrontata con una serie di crisi (in atto o che si delineano all’orizzonte) che toccano vari ambiti: la politica, l’ambiente, le risorse, i valori. Gli scenari nel caso le crisi non dovessero rientrare sono preoccupanti, per non dire spaventosi.

Di fronte a fenomeni di questa portata il singolo individuo reagisce, schematicamente, in uno dei tre seguenti modi:

  1. rifiuta di vedere (o confuta) i fatti e non modifica il suo atteggiamento;

  2. assume i fatti e, annientato dall’enormità di ciò che gli sta di fronte, cade nella rassegnazione e nella depressione;

  3. assume e capisce i fatti e, in un atteggiamento di speranza attiva, sente il bisogno e la voglia di agire2.

Con il motto «Diventa anche tu parte del cambiamento» la Campagna ecumenica 2018 è l’espressione proprio di questo terzo atteggiamento attivo di fronte alle crisi con cui la nostra umanità è confrontata. Partendo dalla constatazione che l’umanità è a una svolta, Sacrificio Quaresimale e Pane per tutti propongono un cammino interiore che porta a cambiare poi anche esteriormente.

Fonte di grande ispirazione è quanto Papa Francesco ha scritto nell’enciclica Laudato si’ a proposito della cura della «nostra casa comune» intesa innanzitutto come comunità di esseri viventi. Egli dice di sperare «che questa Lettera enciclica, che si aggiunge al Magistero sociale della Chiesa, ci aiuti a riconoscere la grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta» (n. 15). Inoltre è ulteriormente motivante constatare come in Sudafrica, o in India o in Brasile, persone che hanno poco o nulla per vivere, uniscono le loro forze e insieme riescono a superare grandi difficoltà; a volte proprio percorrendo strade nuove e inaspettate.

Sul piano pratico Sacrificio Quaresimale e Pane per tutti propongono a ogni persona di chiedersi con onestà che cosa davvero è importante nella sua vita. Una volta individuato l’aspetto centrale invitano a dedicarvi per 40 giorni tempo e impegno. Questa pratica permette di ridefinire le priorità e di ritrovare valori perduti come il rispetto, la gratitudine e la semplicità. Quanto più profonda la svolta alla fine del percorso, tanto più fecondo sarà il cambiamento esteriore e l’impatto sul mondo.

2. Cambiare secondo la Bibbia (di Ernesto Borghi3)

Che cosa significa cambiamento secondo la rivelazione biblica? Quando si utilizza il lessico del cambiare e con quali prospettive? Dal Primo al Nuovo Testamento offriamo qualche dato testuale riferito ai mutamenti più esterni e materiali e approdiamo successivamente a toccare quelli più profondamente esistenziali.

2.1. Cambiamento / cambiare: alcuni esempi biblici palesemente riscontrabili4

In 2Mac 3,16 l’intimo tormento del sommo sacerdote è testimoniato dal cambiamento di colore del viso. In Eb 12,17 il cambiamento evocato è di genere materiale: Esaù vorrebbe che si ritornasse alla situazione precedente la cessione della sua primogenitura, ma ciò è impossibile. In Gc 1,17 si afferma che in Dio non vi è mutamento, dunque la sua affidabilità è indiscutibile.

Passando dal concetto di cambiamento all’azione del cambiare/mutare/trasformare, si notano attestazioni in cui si riscontrano cambiamenti di ordine fisico (alcuni esempi: dal mare alla terraferma = Salmi 66,6; dal deserto ad un lago = Isaia 41,18; dall’acqua al vino = Giovanni 4,46), mutamenti di destino e condizione (cfr., per es., Geremia 30,3; 32,44, 33,7; 48,47; 49,6; 49,39), con particolare riferimento al passaggio dal dolore/lutto alla gioia (cfr., per es., Tobia 7,17; Ester 4,17; 8,12; Geremia 31,13; Amos 8,10), variamente dal bene al male (cfr., per es., 2Samuele 19,3; Sir 11,31; Osea 4,7; Amos 5,8; 6,12; Malachia 2,2).

2.2. «conversione» secondo la Bibbia

Rivolgimento spaziale di un corpo intorno ad un altro e mutamento, trasformazione: ecco i due significati fondamentali di questo termine, globalmente inteso.

Nel quadro semantico della lingua italiana il senso di «mutamento radicale di fede e di opinioni» sembra comparire solo secondariamente5.

(a) La Bibbia ebraica

L’idea di cambiamento radicale del proprio e/o altrui orientamento di vita è reso, nel corpus primotestamentario semitico, dalla radice shûv (1056x)6, il cui significato di base è il seguente: «dopo essersi mossi in una certa direzione, muoversi da quel momento in poi nella direzione opposta»7.

Da questo senso, immediatamente materiale, si è passati, soprattutto negli scritti profetici e in opere storiche quali Nm, Dt, 1/2Re e 1/2Cr, ad una serie di valori traslati di uso teologico (118 attestazioni complessive), in cui minoritario è l’abbandono di Dio (cfr., per es., Nm 14,43; Ger 13,23; Ez 11,19) e maggioritari l’abbandono del male (1Re 8,35) e, particolarmente, il ritorno a Dio (47x su 118: cfr., per es., Dt 30,2; Os 6,1-6)8. Quest’ultima accezione ha una portata collettiva e individuale: è il riorientamento verso il Signore di un popolo infedele al patto d’alleanza con Dio come anche del singolo peccatore, a sua volta responsabile di detta infedeltà. Ecco qualche osservazione più dettagliata in merito.

«»¢ Nelle opere storiche citate in precedenza, l’esortazione alla conversione viene espressa con grande intensità e viene proposta agli ascoltatori come una decisione da prendere. Spesso per questo scopo vengono messe sulla bocca di importanti personaggi del passato d’Israele parole di questo genere, oppure vengono loro attribuite azioni corrispondenti: si vedano, quali esempi, Mosè (Dt 30,1-10); Samuele (1Sam 7,3); Salomone (1Re 8,33-53 = 2Cr 6,24-39); il Signore Dio attraverso profeti sconosciuti (2Re 17,13)9.

«»¢ Nei testi dei profeti il ritorno alla berît (patto) significa ripristinare un rapporto fondante per gli esseri umani, il primo amore tra il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe e Israele. E il riferimento è una «nuova creazione del cuore» (cfr. Ger 31,31-34; Ez 36,25-27). Nell’AT lev (cuore) indica il nucleo essenziale dell’essere umano, che comprende ragione, volontà e spontaneità (amore) come una sintesi unitaria, vitale e a partire da qui abbraccia l’individuo, il suo pensiero (cfr., per es., Ez 16; Os 11,8-9)10.

Chiamando in causa la responsabilità individuale, i profeti fanno appello con insistenza alla coscienza di ognuno (Is 30,15; 55,7; Ger 18,11; Ez 18,30-32). E la conversione gradita al Signore è, per es. secondo Is 58,5-7, qualcosa che si estrinseca in atti di solidarietà concreta verso i simili meno favoriti (oppressi, affamati, senza tetto, ecc.). La salvezza non è limitata al solo popolo d’Israele, ma concerne l’umanità intera, chiamata anch’essa alla conversione (cfr., per es., Is 19,22-25; 45,1-25; 66,18-21; Tb 14,6)11.

Anche la tradizione giudaica extra-biblica (dal II sec. d.C.) attribuisce grande importanza alla conversione, anche se diversamente rispetto all’AT. Infatti

– la coscienza che è Dio colui che deve causare la conversione esiste, ma maggior rilievo è dato all’idea che essa è opera umana. Anzi, la sinergia tra la grazia divina e l’intervento degli individui può trasformarsi in azione prettamente umana sotto il dominio della religione legalistica intesa in senso radicale

– la possibilità di ricominciare da capo è sempre concessa all’essere umano. Comunque il pentimento, la riconciliazione presuppongono che l’uomo abbia colpevolmente distrutto il rapporto esistente tra sé ed il Creatore. La riconciliazione non può aver luogo senza il riconoscimento della colpa o se l’individuo non si assoggetta alla decisione divina. Rimorso e contrizione valgono quanto tutte le offerte sacrificali e dire ripetutamente di peccare e di pentirsi non consente di giungere al reale pentimento. Insomma, «l’inflazione» fa perdere valore ai singoli atti;

– la teshûva è seconda soltanto alla Torà tra le sette cose che furono create prima del mondo;

– chi prega, confida nel fatto che il Dio geloso e che censura il male non cessi mai di essere il Dio che ama12.

(b) Dalla LXX all’epoca neotestamentaria

Due sono i verbi che esprimono l’ebraico shûv nella traduzione ellenistica dell’AT: epistréphein (579 attestazioni, 408 delle quali per rendere questa parola ebraica13) apostréphein (distoglier/si, allontanar/si, voltar/si indietro). Un altro verbo, invece, ossia metanoéin (cambiar mente, assumere un’altra mentalità, cambiare sentimenti e, quando il cambiare mente deriva dal riconoscimento che il modo di pensare precedente era sciocco, sconveniente o cattivo, dispiacersi, pentirsi, avere rincrescimento) esprime nella LXX l’ebraico nhm, alla forma semplice passiva, il cui significato è provare compassione, pentirsi14.

Epistréphein e metanoéin presentano – come, d’altra parte, i verbi che essi traducono e i corrispondenti sostantivi epistrophé e metànoia – valori semantici non del tutto congruenti. Infatti ad un valore profondo, ma più esteriore dei primi, corrisponde un’accezione maggiormente radicale, in quanto anche psicologicamente più ampia, nei secondi.

Nell’uso religioso, comunque, anche nella LXX, i due gruppi di vocaboli divengono quasi sinonimi (cfr. Is 46,8; Ger 8,6; 38,18-19 – LXX): «Nei tre passi profetici citati esso (ndr. = il verbo metanoéin) non si riferisce soltanto al caso singolo d’un cambiamento d’idea, accompagnato da pentimento, ma anche a un mutamento dell’atteggiamento d’insieme, della posizione dell’uomo verso Dio, comprendendo la vita intera e indicando una trasformazione essenziale che è conseguenza di un cambiamento operato da Dio»15.

Verrebbe da dire, in sintesi, che queste attestazioni contestuali delle due parole (come avviene poi anche nel NT – cfr. il paragrafo seguente) esprimano, con un’intensità insuperabile, il senso globale di conversione, dalla mente al cuore sino alla prassi operativa quotidiana.

(c) Il Nuovo Testamento

Il corpus neotestamentario mette in chiaro la sintesi complessiva tra cambiamento di mentalità e ritorno a Dio appena accennata nel paragrafo precedente. Risulta del tutto evidente che la conversione è l’orientamento/riorientamento al Dio di Gesù Cristo tramite un continuo rinnovamento della globalità della persona16.

La prima fondamentale enunciazione sul Regno di Dio è, in sostanza, la seguente: cambiate mentalità, perché il regno di Dio è divenuto vicino (cfr. Mc 1,15). Ecco qualche osservazione schematica sul nostro tema nel quadro globale del NT.

«»¢ I termini epistréphein/epistrophé e metanoéin/metànoia sono particolarmente ricorrenti nell’opera lucana17, ove la conversione è legata al perdono (cfr. Lc 7,47; 24,47; At 3,19), alla fede (cfr. At 2,38; 10,43), al battesimo (cfr. At 2,38; 10,47), al pieno ritrovamento della propria identità personale e sociale (cfr. Lc 7,50; 15,1-32; 17,6), al dono dello Spirito Santo (cfr. At 2,38; 10,45; 11,15-18), alla vita (cfr. At 11,18), e alla salvezza (cfr. Lc 8,12; 19,9)18.

Paolo, nell’arringa davanti al re Agrippa riportata in At afferma: «Ho predicato che bisognava cambiare mentalità (metanoéin) e ritornare (epistréphein) a Dio compiendo opere di vera conversione» (cfr. 26,20; cfr. anche il già citato 3,19). Se non si cambia radicalmente vita, se cioè si evita il passaggio per la porta stretta (cfr. Lc 13,24), la conversione non ha alcuna consistenza reale.

«»¢ Divenire discepoli di Gesù implica la conversione a lui e al suo evangelo. La vocazione dei seguaci del Cristo è, chiaramente e anzitutto, conversione radicale, cambiamento decisivo della propria vita19.

Questo processo di cambiamento non è oppressivo per il discepolo: non si tratta di una dimostrazione di sé, ma di «diventare come bambini» (Mt 18,3) in senso ovviamente non anagrafico, ma spirituale: «la figura del bambino è legata a quella dell’accoglimento. Il regno di Dio viene ad incontrare un tipo d’infanzia che è un tipo di accoglimento. Né l’una figura né l’altra appartengono all’ordine dell’avere, della proprietà o della conquista. Esse sono da ricercare nell’ambito della mancanza, della gratuità, dell’apertura a quanto viene da altro luogo e da un Altro»20.

Bisogna essere consapevoli della propria debolezza, aspettarsi molto, tutto, dall’azione trasformatrice di Colui in cui si crede: appunto in questo consiste la conversione21.

«»¢ Occorre anche dire che nessun testo neotestamentario è interessato al quadro biografico della conversione, al quando di quest’opzione. È invece decisivo che la vita del cristiano si divida, con nettezza ed autenticità, in due parti, il passato dominato dalle logiche esclusivamente mondane (Rm 1,18-2,29) e il presente dell’esistenza aperta allo Spirito d’amore di Dio (cfr., per es., Mc 9,14-29; 2Cor 3,15-16; Ef 2,11-13; 5,8; Gal 4,8-9). Nel NT la conversione è sempre un nuovo inizio, posto da Dio nella vita di un essere umano. Questo inizio non è, tuttavia, in sé la totalità acquisita della nuova esistenza, giacché esprime semplicemente l’avvio di un processo di crescita.

Quale processo? Semplice: la pìstis (= fede come elemento opposto rispetto all’idolatria – 1Cor 10,15) e la conoscenza (cfr. Col 1,10) aumentano e ogni persona, che ha operato questa scelta dirompente nella propria vita, viene a partecipare, giorno per giorno all’opera liberatrice del Signore che perpetua il momento iniziale del processo (cfr. 1Cor 15,58). Certamente si tratta di un percorso anche duro, una vera «lotta» contro le fragilità proprie ed altrui (cfr. Rm 13,11-14), a favore di se stessi e degli altri esseri umani, con una disponibilità di energie sempre maggiori e migliori per far fronte a questa lotta e gioire, in sé e con altri simili, della propria crescente umanizzazione (cfr. 2Cor 4,16; Mt 28,19-20)22.

La conversione neotestamentaria pertanto,

«»¢ è la chiara rottura con l’esistenza passata e, come dicono i testi giovannei, il passaggio dalle tenebre del male e dell’infedeltà menzognera alla luce del bene e della verità (cfr., per es., Gv 1,4-10; 10,1-40; 1Gv 1,5-10);

«»¢ abbraccia anche tutta la trasformazione dell’essere umano richiesto dal Regno di Dio e include pure il motivo del nuovo rapporto personale del singolo con Dio, ossia dell’affidamento totale al Creatore, opzione esistenziale che dimostra la sua verifica nel momento etico: «ci si ricorderà che l’essere umano non è soltanto dinanzi a Dio, ma anche insieme ad altri. Ricreato dallo Spirito ad immagine del Figlio, il credente non può che essere un essere di relazione, chiamato a vivere anzitutto dell’incontro con Dio e, in seguito, dell’incontro con altri»23;

«»¢ rivela la sua autenticità alla prova del tempo: solo la continuità perseverante di un’esistenza radicata nella fede pregna d’amore dà il senso di un vero processo di conversione, da portare avanti senza «istruzioni» uguali per tutti, ma con l’esercizio quotidiano del responsabile discernimento individuale, secondo l’unica linea indicata: l’agápê.

Cambiarsi, convertirsi è, in definitiva, tutto ciò che la venuta del Regno di Dio24 esige dall’essere umano25 (cfr., per es., il discorso della montagna in Mt 5-7 e i paralleli lucani): si tratta di un attaccamento rinnovato alla vita ricevuta da Dio, attaccamento che si esprime concretamente nell’amore, il comportamento etico che favorisce, mantiene e preserva la vita26.

Questo processo è sempre possibile, ma è di difficile realizzazione. Oggi a quali «conversioni» assistiamo? Verso quali cambiamenti stiamo andando, senza fare del catastrofismo, ma anche senza vivere irresponsabilmente fuori della realtà?

3. Per capire il cambiamento (di Carmine Tabarro27)

«Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al «perché?». Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore»28 – «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo.  Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca»29 – «Il problema non è cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma cosa la tecnica può fare di noi» (Günther Anders).

Il tema di questa sera è «Noi e il cambiamento», per rispondere a questa domanda dobbiamo comprendere le cifre del ” cambiamento», per le motivazioni che tra breve illustrerò.

Le mie competenze sono di carattere economico, giuridico, filosofico e teologico, nel senso che nel corso della ma vita, sia a livello di studi, sia a livello professionale, sia a livello vocazionale ho sempre creduto al dialogo tra fede e scienza. 

Quest’impegno si fonda su una ferma convinzione che tra scienza e fede non solo non esiste un’opposizione, ma ci può essere un dialogo sereno e fecondo, e che la fede cristiana, propriamente intesa, è creatrice di cultura e fonte ispiratrice di vie di umanizzazione e di spunto per le scienze umane.

Per questo motivo i miei studi si prefiggono un’approfondita comprensione dei fenomeni dello sviluppo scientifico e tecnologico e delle loro influenze, con i loro risvolti positivi e negativi sulle persone e sulla società.

Infatti sono convinto che solo attraverso un dialogo multidiscipinare sia possibile fare discernimento, per vivere e annunciare il Vangelo anche in questa generazione che si definisce tecno-nichilista e post-umana.

Pertanto il mio intervento  partirà  dal pensiero del nostro tempo (dimensione filosofica), con diverse incursioni nelle forme sociali del nostro tempo e nel finale sulle vie dell’economia civile.

Un primo contributo per «capire il cambiamento» consiste nel recuperare l’arte del discernimento.

3.1. Discernimento

In tal senso nelle due Esortazioni apostoliche di Papa Francesco (Evangelii gaudium e Amoris laetitia), il tema del discernimento occupa un posto centrale, che merita di essere considerato attentamente. 

La prima importante indicazione sul discernimento viene da Gesù stesso, che invita le persone a pensare con la propria testa, e a decidersi per il regno di Dio: «come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,56-57); «non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio» (Gv 7,24). Paolo così sintetizza il processo che regola l’esistenza cristiana: «esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21), e la prima lettera di Giovanni raccomanda: «Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio» (4,1). 

La Chiesa non fa altro che avanzare sulla stessa strada: la nostra vita di credente necessita di quella sapienza che lo Spirito santo dona a chi si pone in ascolto della voce di Dio. Come il profeta Elia percepì di essere alla presenza di Dio non nel frastuono di venti, tuoni e terremoto ma solo quando ascoltò «la voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12) o come afferma Ignazio di Antiochia che Cristo è «la Parola che procede dal silenzio».

In questo senso un ruolo importante, come afferma il cardinale e papa Ratzinger, riveste la filosofia, strumento che può fornirci le chiavi di senso del nostro quotidiano in alto e in basso.

Anzitutto è necessario comprendere che siamo dinanzi non ad una crisi politica, economica, sociale, morale ecc., ma stiamo vivendo più crisi insieme. Esse stanno determinando quella che ad avviso è una svolta antropologica-culturale-spirituale come vedremo più avanti.

Faccio notare come, dal Concilio Vaticano II, a Papa Francesco, seppur con cifre culturali diverse, è stato denunciato la deriva tecno-nichilista del mondo globalizzato e in particolare dell’Occidente, proponendo anche vie di uscita inascoltate. 

In particolare ricordo quanto affermato da Papa Francesco durante la Veglia di Pentecoste del 2013 con i Movimenti ecclesiali: «Questo momento di crisi, stiamo attenti, non consiste in una crisi soltanto economica; non è una crisi culturale. E’ una crisi dell’uomo: ciò che è in crisi è l’uomo! E ciò che può essere distrutto è l’uomo! Ma l’uomo è immagine di Dio! Per questo è una crisi profonda! In questo momento di crisi non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello scoraggiamento, nel senso di impotenza di fronte ai problemi. Non chiudetevi, per favore!». 

Questa è la realtà, la verità. Purtroppo non solo i cristiani ma anche la cultura laica non ha ancora fatto i conti con la svolta e le conseguenze antropologiche e culturali del tecno-nichilismo.

Come accennato le mie analisi non saranno da economista. Non mi occuperò delle cause prossime della crisi finanziaria, né degli effetti del collasso della finanza, perché su entrambe le questioni i contributi costuiscono ormai una letteratura amplissima, ma soprattutto, perché la crisi finanziaria è, anche a mio avviso, solo l’involucro esterno della più complessa e profonda svolta tecno-nichilista che l’Occidente ha intrapreso in maniera ideologica dalla Seconda guerra mondiale.

Nella società del tecno-nichilismo, come ha ben descritto il sociologo tedesco Ulrich Beck, la società vive immersa nel rischio endogeno ed esogeno (novità) – rischio che riguarda anche la finanza – il rischio nella nostra società può essere spostato, ridotto, mai annullato.

Tale senso di onnipotenza, foraggiato per parecchi anni dall’euforia della tecno-finanza, si è impadronito degli habitus mentali non solamente dei trader e degli istituti della finanza, ma, spesso, anche delle autorità politiche, dei centri mediatici, di non pochi ambienti universitari e di ricerca. La tecnica elevata a nuova forma di religione, ha declinato la finanza come fine a se stessa facendo così dimenticare la massima di Platone secondo cui: «L’unica buona moneta con cui bisogna cambiare tutte le altre è la phrònesis, l’intelligenza che sta in guardia». Una massima che l’illustre economista americano J. Galbraith assai più prosaicamente ha reso così: «È bene che ogni tanto i soldi vengano separati dagli imbecilli».

Ed è bene che così avvenga, perché sono molti gli innocenti che pagano per la hybris degli imbecilli nel senso descritto dal poeta francese Leon Bloy.

Purtroppo come la storia insegna, il phònos theon, l’»ira degli dei» che si accompagna alla hybris, si abbatte sempre sugli ultimi e sui più vulnerabili, il che è semplicemente scandaloso.

Come detto, sono profondamente convinto che nonostante da diversi decenni, il mainstream culturale, politico, economico e sociale ne parli, ancora non abbiamo profondamente fatto i conti, compreso, concettualizzato, metabolizzato, il profondo cambio di paradigma che stiamo vivendo.

In sessant’anni tutto è cambiato: globalizzazione, finanza, economia, mondo del lavoro, tecnologia, biotecnologia, le nanotecnologie, la medicina in genere il fare mondo ha visto l’affermazione del tecno nichilismo ovvero la tecnologia applicata direttamente all’essere umano.

Questo declino di civiltà è dovuto al fatto che l’Occidente ha assunto il denaro come unico generatore simbolico di tutti i valori e anche a livello popolare noi oggi siamo in grado di dire che cos’è utile, ma non sappiamo più che cos’è bello, che cos’è buono, che cos’è santo, che cos’è vero, che cos’è giusto. Tutti questi valori sono spariti perché l’unico valore che resta in circolazione è il valore del denaro.

Il denaro ha sostituito sostanzialmente l’uomo, nel senso che la razionalità assoluta presiede l’economia. Si tratta di una razionalità di tipo strumentale: si pensa solo ai mezzi impiegati e i fini che si vogliono raggiungere. È una razionalità che vuole impiegare sempre minori mezzi (costi) per ottenere la massimizzazione dei fini, dei risultati (profitto) dumping sociale ed ambientale .

In questa pseudo-antropologia, il pensiero non esiste e l’uomo tutto sommato nella sua storia non ha pensato e perseguito solo i vantaggi, l’egoismo, i profitti, ma ha anche pensato e perseguito tante altre cose cose, come l’arte, la filosofia, la musica, la letteratura, la poesia, la teologia, il bene comune, la fraternità ecc…Tutti questi valori, nel tecno nichilismo sono svalutati, anzi l’arte, la filosofia, la musica, la letteratura, la poesia, la teologia, sono apprezzati solo quando diventano fattori economici.

Pertanto, se dal mondo contemporaneo togliamo la parola denaro o la parola tecnica, esso non può essere compreso. La tecnica e il denaro fanno mondo e, a vari livelli, sono l’unica lente di lettura del panorama attuale. Se pensiamo al Medioevo, tutto era intriso di sacralità, l’arte era sacra, ovvero i soggetti artistici avevano tutti un argomento sacro, la donna era madonna…, in altre parole, non possiamo comprendere il Medioevo se eliminiamo il concetto di Dio. Ma se togliamo Dio al mondo contemporaneo il panorama rimane sostanzialmente intatto. Invece non possiamo comprendere il mondo contemporaneo se togliamo la parola denaro e tecnica.

Facciamo un passo in avanti. La tecnica comporta dei veloci cambiamenti che avvengono con una rapidità notevolissima, rispetto alla quale la psiche individuale e collettiva non è preparata. Di qui si capisce l’aumento geometrico delle patologie pschiatriche.

Vediamo quanto affanno c’è per tenere a bada il «crollo» interno ed esterno del mondo occidentale, c’è un affanno confuso come quando si vuole raggiungere qualche cosa, ma non si sa che cosa.

In tutto questo, noi occidentali siamo la popolazione più debole della terra, perché siamo i più tecnicamente assistiti. Un esempio: questa sera per mangiare nessuno di noi è andato per i campi a procurarsi il cibo, ma ha aperto un frigorifero, tanto per intenderci, ed ha mangiato.

Le cause remote del cambiamento e della crisi sono l’affermazione del nichilismo, dalla morte di Dio alla morte dell’uomo. Da Gorgia, che già nel IV secolo a.C.– scrive «nulla è, nulla esiste; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile» a Heidegger –che afferma «che ne è dell’essere? Dell’essere ne è nulla!». E se proprio qui si rivelasse l’essenza del nichilismo finora rimasta nascosta? –, per l’intero arco della storia della filosofia, l’ospite inquietante ha fatto sentire la sua presenza, ma solo a cavallo tra la società moderna e postmoderna, questa presenza è divenuta clima della terra, spaesamento di tutti i paesaggi che gli uomini nella loro storia hanno di volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra».

Come era normale che avvenisse, tra i primi a comprendere questo cambiamento sono state certe avanguardie filosofiche del 900, tra loro i maggiori sono stati Nietzsche o Heidegger. Scrive Nietzsche «Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene costui, il più inquietante degli ospiti?»30. Oppure in un aforisma dell’autunno 1887, egli afferma «i valori supremi si svalutano». Sintetizzando possiamo dire nichilismo uguale a: Non esiste una verità, non esiste un fondamento, una morale, un centro del mondo, una religione, un Dio, uno scopo (come vedremo), un orizzonte, un’origine, un fine, tutto è senza senso, in alto e in basso.

Chi ha letto bene le parole di Nietzsche è stato Heidegger, nell’opera La questione dell’essere «Nietzsche chiama il nichilismo «il più inquietante (unheimlich) fra tutti gli ospiti», perché ciò che esso vuole è lo spaesamento (Heimatlosigkeit) come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia».

Facciamo un ulteriore passo. Sempre Nietzsche scrive: «In un luminoso mattino il folle piomba in piazza del mercato con la sua lampada gridando: «Dov’è andato Dio? Noi lo abbiamo ucciso, voi e io!… Le nostre mani grondano del suo sangue. Non sentite il lezzo della sua putrefazione? Dio è morto e resterà morto!… Chi uccide Dio diventerà Dio lui stesso!».

Come scrive lo psicanalista Luigi Zoja, «Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento»31.

Con morte di Dio e la conseguente morte dell’uomo come morte del prossimo, il cielo e la terra si sono svuotati. Ma niente resiste al risucchio del vuoto, del non senso, della mancanza di un fine. Lo spazio celeste e terrestre è stato riempito con l’assunzione dei miracoli della scienza, della tecnica, dal denaro, con l’elevazione alle stelle del desiderio personale. Troppo spesso dimentichiamo che desiderare significa proprio questo: smettere di affidarsi alla precarietà, farne a meno, sostituirsi al cielo.

Continuiamo ad aver bisogno di adorare qualcuno, ma il posto di Dio è preso dall’uomo tecnologico e dalle sue opere. L’uomo tecnologico è divenuto un idolo, ma questo è un falso antropologico. L’uomo tecnologico è elevate a modello e scopo per gli altri uomini. È l’uomo ideale, trasfigurato, divinizzato. Noi crediamo di comunicare avvicinandoci in tempo reale a chi si trova a grande distanza da noi, ma questo non crea prossimità, anzi, l’illusione di avvicinarsi grazie a mezzi di comunicazione sempre più sofisticati è una delle malattie più gravi del mondo di oggi. Solo la prossimità fisica rende possibile una vera relazione. Senza di essa si passa con facilità dalla solitudine all’isolamento, alla depressione.

È un uomo senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, può trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circonda, vive conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile vuoto che porta con sé. Per dirla con Vasco Rossi – «ognuno perso dietro i fatti suoi».

Non è piú una vista: è una visione. Ecco l’origine del culto delle persone famose, delle celebrità. Naturalmente le persone vicine continuano a esistere, ma la loro banale imperfezione le rende più estranee, anzi nemiche, pensiamo alla cultura dell’odio contemporanea. In questo senso Sartre ha colto nel segno quando afferma: gli altri sono l’inferno, anzi possiamo dire che l’altro è il mio inferno.

Quindi dalla morte di Dio siamo giunti alla morte dell’uomo, del prossimo e siamo entrati nell’epoca del post-umano e trans-umano che porta all’implosione dell’umano.

Il 21 febbraio del 2011 la rivista Times ha dedicato una copertina con una testa bionica, con il titolo Anno 2045 l’anno in cui l’uomo diverrà immortale. Questo è tema di un’altra conferenza, ma ci fa comprendere il clima culturale in cui siamo immersi.

Il motivo che porta alla morte dell’umano e dell’uomo, a mio avviso, è rivelato nei suoi paradossi sempre da Nietzsche, quando egli afferma: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al «perché?», tutti i valori si svalutano, perdono ogni valore» e aggiungeva: «mi capirete tra 50 anni»32

Purtroppo è passato un secolo e mezzo ed ancora dobbiamo fare i conti con il nichilismo. Con il nichilismo, non c’è più alto né basso, né destra né sinistra, stiamo precipitando nel nulla, nell’abisso.

Tre sono le caratteristiche nel nichilismo secondo Nietzsche: 1) manca lo scopo; 2) manca la risposta al perché; 3) tutti i valori si svalutano.

Che i valori si svalutano non è particolarmente interessante. La storia va avanti grazie a svalutazioni e rivalutazioni di valori. Moltissimi valori non sono entità metafisiche o rivelativi, non sono postulati di teologia dogmatica, i valori sono dei coefficienti sociali che una comunità decide di adottare in quanto li considera idonei a ridurre la conflittualità.

Dobbiamo dire che nell’epoca del tecno-nichilismo, propria per la sua struttura funzionale non nascono nuovi valori. Prima della rivoluzione francese la società era organizzata secondo valori gerarchici, dopo la rivoluzione francese, la società si è organizzata secondo valori di uguaglianza e questo non ha fatto peggiorare il mondo anzi, si è fatto addirittura un progresso. Quindi l’ultima parte della domanda di Nietzsche non mi pare molto interessante.

Mentre l’aspetto importante è «manca lo scopo». Come scrive il filosofo e psicanalista argentino Miguel Benasayag, in quel bellissimo saggio L’epoca delle passioni tristi, «il futuro non è più una promessa, ma è una minaccia». In tal senso, come detto, si muove anche il grande sociologo tedesco Ulrich Beck, La società del rischio.

Se il futuro è incerto a rischio, la motivazione allo sviluppo in umanizzazione non retroagisce come motivazione. Quando mi sono laureato, già alcuni mesi prima, due banche mi avevano contattato per propormi un contratto di lavoro. Oggi il mio terzo figlio con laurea magistrale in economia, master al Politecnico di Milano (e come lui tanti ragazzi con elevata formazione intellettuale), vive di stage a 29 anni.

Se il futuro è incerto, a rischio, non retroagisce come motivazione in umanizzazione, ed i giovani iniziano a chiedersi a cosa è servito studiare, a sacrificarsi, a nulla. Questo vuoto, questa mancanza di ragione inizia a prendere corpo; dopodiché segue la terza motivazione di Nietzsche, «manca la risposta al perché».

Che senso ha la mia vita? Ci siamo mai chiesti perché molti giovani dormono fino a mezzogiorno, oppure vivono di notte invece che di giorno. Probabilmente perché non vogliono assaggiare quotidianamente la loro insignificanza sociale, dal momento che come afferma Bauman, sono degli scarti anonimi, nessuno li chiama per nome nessuno li convoca, nessuno li fa sentire interessanti, umani, anche se ormai è dimostrato che i giovani dai quindici ai trent’anni hanno il massimo della potenza biologica e intellettuale ed invece, secondo uno stereotipo della cultura attuale, i giovani, sognano di fare le veline o i calciatori, perché vendere il corpo è l’unica cosa che si apprezza di loro.

Ci troviamo, quindi, dinanzi a una massa di giovani che ha il massimo della forza biologica e intellettuale ma è inutilizzata. Essi non hanno uno scopo, non hanno un senso, non hanno un fine.

Una società che fa a meno del massimo della forza biologica e intellettuale, se pensiamo a una società come organismo vitale, quale tipo di futuro ha? Per i giovani non c’è accoglienza questo è profondamente «essere nel nulla», e questa è una cosa veramente tragica.

In questo «essere nel nulla» molti ragazzi stanno male, ma non sanno di che cosa soffrono, perché non sanno la causa del loro stare male, non sanno nominarlo, riconoscerlo. Stanno male e basta!

Che cosa manca loro per dare un nome alla loro sofferenza? La diagnosi. Infatti se abbiamo una diagnosi, ci si può anche «curare», si sa come comportarsi. Perché allora la nostra società, soprattutto nel Nord del mondo, è circondata dalle voci del disagio di vivere, di quel male di vivere che si è impossessato di tanti, ormai disillusi rispetto all’efficienza senza senso?  Secondo me, l’eziopatologia del tecno-nichilismo non è stata ancora studiata, conosciuta, valutata.

3.2. Eziologia del tecno-nichilismo

Insieme al nichilismo al centro del nostro discorso c’è la tecnica, che è il tratto comune e caratteristico dell’Occidente (e non solo). Siamo definitivamente usciti dalla cultura umanistica e siamo entrati a pieno titolo nella civiltà della tecnica. L’età della tecno-nichilismo inizia dalla Seconda guerra mondiale per i motivi che tra breve illustrerò.

Ovviamente non è che prima non ci fossero le macchine o gli strumenti tecnologici, ma perché, come scrive (con una grande intuizione) Hegel, nel suo saggio sulla Logica, «Quando un fenomeno aumenta quantitativamente non abbiamo solo un aumento quantitativo di un fenomeno, ma abbiamo anche una variazione qualitativa del paesaggio».

Hegel fa un esempio molto semplice: «Se mi tolgo un capello, sono uno che ha i capelli, se mi tolgo un altro capello sono ancora uno che ha i capelli, se vado avanti con questo gesto e mi tolgo tutti i capelli, divento calvo». Cambiamento qualitativo per l’aumento quantitativo di un gesto.

È l’esempio delle tragedie del comunismo e del nazismo. Mi soffermo sulle conseguenze del nazismo di cui mi sono maggiormente occupato. Sotto questo regime ci sono stati oltre sei milioni di morti trucidati nella Shoah, perché è stato messo in circolazione il principio che è diventato normale nell’età del tecno-nichilismo: l’uomo ha visto trasformare la sua attività non più nella forma dell’agire per un fine, per un senso, ma per il puro e semplice fare. Questo è il sigillo della civiltà tecno nichilista.

«Agire» vuol dire che io compio un’azione in vista di uno scopo, «fare» vuol dire che io eseguo azioni descritte e prescritte senza conoscere gli scopi finali e, qualora li conoscessi, procederei lo stesso senza avere alcun senso di responsabilità, senza nessun senso di umanità.

Ce ne accorgiamo leggendo gli atti del Processo di Norimberga. I gerarchi nazisti ripetono sempre la stessa risposta: io ho eseguito gli ordini. Dice il grande filosofo ebreo tedesco Günther Anders, che nell’età della tecno nichilismo questa è la risposta esatta. Nel tecno-nichilismo, l’uomo è ridotto a simil macchina, si è trasformato in un funzionario dell’apparato tecnico, dove si devono solo eseguire bene le procedure prescritte e descritte dall’apparato senza farsi nessuna domanda di senso.

Gli scopi finali dell’apparato non ci riguardano. Ne sei a conoscenza o meno, non ne sei responsabile, sei bravo solo se esegui bene il tuo «mansionario», se non ti fai carico degli scenari che l’apparato provoca.

La giornalista Gitta Sereny, per conto delle Nazioni Unite, fece 170 interviste al direttore del campo di concentramento di Treblinka, dal quale è nato l’illuminante libro In that darkness (= In quelle tenebre). La Sereny per ben sessanta ore, in giorni diversi, chiese al comandante del capo di concentramento che cosa provasse mentre eseguiva gli omicidi tecnicamente perfetti nelle camere a gas. Il direttore di Treblinka Stangl, per 170 volte rispose: io non dovevo provare niente! Alle 11 arrivava un carico di tremila persone che dovevano essere soppresse entro le tre, perché arrivavano altre tremila persone, io eseguivo. Questo era semplicemente il mio lavoro.

Stiamo attenti a quando, nel mondo del lavoro, sentiamo ripetere questa affermazione: lavoro-dovere. Da economista riporto l’esperienza dei titoli tossici o delle obbligazioni subordinate o di derivati venduti a persone culturalmente non attrezzate. Alla domanda perché avessero autorizzato la vendita di titoli rischiosi a persone culturalmente non attrezzate, la risposta dei dirigenti delle banche incriminate è stata sempre la stessa: Abbiamo fatto il nostro dovere, il nostro lavoro. La stessa risposta a questa domanda è stata posta agli organismi di controllo e la risposta è stata la stessa: abbiamo fatto il nostro dovere, il nostro lavoro. E i più deboli hanno pagato i disastri economici.

Cambiamo fronte, ma restiamo sul tema. Nel libro di Günther Anders, L’ ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica, Anders pose la stessa domanda di Gitta Sereny: Che cosa provavi mentre sganciavi la bomba sulla città?– e il pilota Claude Eatherly, rispose Nothing! It whose my job (= Niente! Era il mio lavoro!). 

Ecco che cosa si insinua nella parola manipolata dal tecno nichilismo, «lavoro»: Eatherly è bravo se sgancia con precisione la bomba atomica, ma la responsabilità, lui non ce l’ha! La civiltà del tecno-nichilismo esige la nostra irresponsabilità, nel senso che non coniuga valori se non il profitto.

Günther Anders: Il problema non è cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma chec osa la tecnica può fare di noi, con noi. Come chiamiamo l’operaio/a che costruisce le mine antiuomo: operaio o delinquente? Io chiederei a quell’operaio/a: Ti sei mai posto/a la domanda a cosa servono le mine antiuomo?

Ma egli/ella non è stato educato alla responsabilità sugli scopi finali del suo lavoro…Questo è il risultato del passaggio dall’»agire» al «fare»: fare bene il tuo lavoro, il tuo dovere, gli scopi non ti riguardano. Questa è la civiltà del tecno nichilismo.

Anders, già nel 1956 scrive nel suo saggio L’uomo è antiquato, che la tecnologia ha compiuto, dalle origini della prima rivoluzione industriale, quella delle macchine, un salto di qualità (con l’automazione dei processi produttivi e lo sfruttamento perverso della natura) tale da rendere antiquato l’uomo e antiquate le sue facoltà tra immaginare e produrre, tra sentire e agire, tra coscienza e conoscenza. In altri termini, tutto ciò che produciamo non lo capiamo più perché non abbiamo più categorie che ci permettono di affrontare le sconvolgenti trasformazioni della modernità.

L’ascesa della tecnica secondo Anders è un processo di radicale ribaltamento nel rapporto tra bisogni, mezzi e fini, provocando una totale catastrofe della conoscenza umana: «[…] La storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata «tecnica» o meglio, la tecnica è ormai diventato il soggetto della storia con la quale noi siamo soltanto «co-storici»».

In tal senso sempre Anders, da allievo di Heidegger, fuggito in America a causa delle persecuzioni naziste, per guadagnare da vivere andò a lavorare alla Ford. Egli scrive alsuo maestro una bella lettera in cui dice: «Lei mi ha insegnato che l’uomo è il pastore dell’essere, io qui alla Ford mi pare di essere il pastore delle macchine e devo diventare sempre più come una macchina».

Quindi come afferma, Heidegger, ciò che è inquietante non è tanto che il mondo si trasformi in un unico enorme apparato tecnico, bensì lo è molto di più il fatto che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo.

Ma, giungendo al terzo grado del pensiero di Heidegger, deve preoccupare maggiormente l’assenza di un pensiero alternativo al mero saper calcolare, in tedesco, Denken als Rechnen. In questa prospettiva il pensiero è divenuto solo calcolo.

3.3. Due conseguenze pratiche del tecno-nichilismo

Poniamoci questa domanda: nella civiltà della tecnica, sarà ancora possibile che nascano un Dante, un Leopardi, un Leonardo, un Michelangelo, un Kant, un Mozart, Beethoven ecc., oppure possono nascere solo geni informativi con tutto quel che comporta?

Steve Jobs nella sua autobiografia scrive: «Mi hanno dato più emozioni questi due elettrodomestici di qualsiasi altro pezzo di tecnologia abbia visto negli ultimi anni». 

La civiltà della tecnica, a differenza di tutte le scienze umane e della religione non teme smentite nonostante i fallimenti. Ad esempio se domani il Papa ci viene a dire che Dio non esiste, abbiamo un collasso della religione. Questa è stata l’esperienza dell’ideologia comunista. Dal momento che ha negato se stessa è collassata. La tecnica no, perché non assume le sue ipotesi come leggi eterne, ma come leggi provvisorie finché non se ne trovano di migliori.

Se tutte le altre espressioni umane, religione, politica, ideologie non sussistono alla loro negazione, per la tecnica, invece, sono incremento, come è accaduto, per fare solo alcuni recenti esempi, dal Golfo del Messico a Chernobyl, dalla strage di Bhopal allo tsunami nucleare di Fukushima, nessuno dice che la tecnica e la scienza sono da bandire, ma anzi invochiamo più scienza e più tecnica affinché pongano riparo al disastro. Pertanto la negazione al disastro tecnico viene risalvato dalla tecnica, mentre il «disastro» ideologico non viene più superato positivamente dall’ideologia, come non si supera il «disastro» politico, religioso attraverso la politica o la religione.

Questo fatto produce degli sconquassi nel modo di intendere il nostro tempo, nel senso che si modificano radicalmente alcuni elementi fondamentali: il concetto di persona, la ragione, la verità, le ideologie, la politica, l’etica, la natura, la religione, la storia. Lascio ai presenti ogni commento.

3.4. Dal passato al futuro

L’economia era un’altissima forma di razionalità raggiunta dall’uomo, ma non la suprema. Essa soffre ancora di una «passione umana», quella per il profitto, di cui invece la tecnica non soffre. Pertanto l’economia, a partire dalla filosofia e dalla scienza, ha organizzato se stessa matematicamente, eliminando soggettività, corpi e tutto ciò che ha a che fare col mondo sensibile e visualizzando se stessa in quella dimensione virtuale che si chiama denaro computabile. Ma ha dovuto cedere il passo ad una forma ancora più razionale, che si chiama tecnica. Quindi, oggi la tecnica va considerata come la forma più alta della razionalità e soprattutto come la grande e più rigida delle manifestazioni di quello che stiamo chiamando «il pensiero calcolante».

Ripeto quanto già detto citando sempre Anders: Il problema non è cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma cosa la tecnica può fare di noi, con noi. 

Ormai la tecnica e il nichilismo sono diventati il nostro ambiente, il nostro ethos culturale. Soprattutto il tecno-nichilismo è diventato il soggetto della storia. Il rapporto uomo/tecnica si è capovolto, nel senso che non è più l’uomo il soggetto della storia, ma lo è diventato la tecnica.

Tutto questo determina un’accelerazione della tecnica tale da essere assolutamente non tollerabile dalla psiche umana. Pensiamo dal punto di vista informatico il tempo. Esso è talmente velocizzato che noi umani non riusciamo a stargli dietro, lo spazio anche quello è annullato. Kant qualificava, tempo e spazio come categorie antropologiche assolute. Oggi tempo e spazi sono trasformate attraverso un processo di velocizzazione e un avvicinamento delle distanze tali che non riusciamo più a concepirle come commentatori umani, ma siamo costretti a seguirli come la tecnica desidera.

Altro rischio: la tecnica sviluppa in noi delle intelligenze convergenti. Sono convergenti quelle intelligenze che risolvono i problemi stando all’interno dell’impostazione del problema, che, nel caso della tecnica, si chiama «programma».

Ora le intelligenze convergenti non hanno mai prodotto storia, sono fondamentali intelligenze divergenti che risolvono i problemi non stando all’interno dell’impostazione, ma capovolgendo il modo con cui il problema è impostato. Questo a livello tecnico è sempre meno probabile. Quindi l’intelligenza umana è chiamata continuamente a subire degli stress e degli smacchi dalla tecnica. Anche su questa dimensione siamo impreparati a dare risposte. Si considera solo quello che possiamo fare in una sorta di utopia quasi religiosa della tecnica, in realtà è la tecnica che ci trasforma e ci rende post-umani.

3.5. Conclusione

Oltre la crisi, verso l’economia civile. Passo dal livello filosofico al livello della forma del pensiero economico. La contraddizione di fondo del modello è racchiusa precisamente nell’espressione tecnico-nichilista e nelle illusioni da esso generate. Questo tipo di tecno-capitalismo ha creduto ciecamente alla potenza della tecnica, indebolendo così la capacità delle persone di condividere valori universali, ossia l’uomo, il creato, che le relazioni contano al di là della redditività economica.

Kant scrive: «L’uomo considerato come persona è al di sopra di ogni prezzo», ossia non può mai essere considerato come un «mezzo» (né per fini altrui né per fini propri!). La dignità dell’uomo, dunque, consiste in un «valore intrinseco assoluto» che impone a tutti gli altri esseri ragionevoli (ossia umani) il rispetto: – sia della propria persona – che della persona altrui (con cui ci si deve misurare alla pari)…

Il rispetto che ho per gli altri -scrive Kant- è il riconoscimento della dignità che è negli altri»: disprezzare gli altri, pertanto, è negare il rispetto dovuto in generale a qualsiasi uomo!».

Sì, è vero: l’etica di Kant non si è mai realizzata, perché gli uomini da che mondo è mondo non sono mai stati trattati come un fine, ma nell’epoca della globalizzazione tecno-nichilista, per esempio, le merci hanno una libertà di circolazione che gli uomini (immigrati – commercianti di carne umana) non hanno. La crisi finanziaria è l’emblema di questa contraddizione: i valori finanziari erano del tutto fittizi, in quanto slegati dalla realtà: come un uovo sbattuto, il cui volume aumenta artificialmente, per poi sgonfiarsi improvvisamente.

Oggi che tutto questo è sotto i nostri occhi, bisogna aver voglia di imparare le lezione. Tradotto: la crescita economica è un bene, ma non può essere un fine in sé governato dalla tecnica. Oggi potremmo parlare dei grandi rischi del fenomeno Bitcoin, ma per questo tema ci vorrebbe almeno un altro incontro.

Dobbiamo comprendere che redditività e profitto vanno associati a uno sviluppo sociale e civile sostenibile, altrimenti si continueranno drammi sempre più grandi a causa dell’evoluzione della tecnica slegata dall’umano. L’unico sviluppo economico solido è quello che accetta di andare un po’ più piano, ma fa crescere in umanità la società.

Per riaprire l’orizzonte chiuso e disumanizzante in cui rischia di finire il tecno nichilismo occorre un nuovo umanesimo della concretezza che, guardando a Gesù Cristo, torni a essere capace di quella postura relazionale, aperta, dinamica, affettiva, generativa, verso cui ci sospinge continuamente Papa Francesco con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato si’.

Elenco alcune caratteristiche dell’economia civile. L’economia civile è un fiume carsico che ha accompagnato la storia dell’uomo e la storia biblica. Il profeta Sofonia annuncia il giorno del Signore (jom ›Adonai), del Veniente, perciò invita alla consolazione, rivolgendosi innanzitutto agli umili della terra, i poveri di Adonai (cfr. Sof 2,3), umiliati e poveri che attendono la salvezza dal Signore che si incarna nella storia.

Se costoro confermano il loro impegno nell’adempiere la volontà di Dio e cercano la sua giustizia, mai confidando in se stessi, allora saranno al riparo nel giorno del Signore. Questi fratelli e sorelle sono una minoranza, un resto, non sono tutto Israele, ma proprio a loro è annunciato e promesso il futuro nella pace e nella pienezza della vita, perché sono i prediletti da Dio. Questi poveri non sono solo destinatari delle scelte di Dio, ma, a causa della loro condotta, sono esemplari per tutta la comunità dei figli di Israele. Dal concetto di comunità, di «resto», dal Primo Testamento, abbiamo la genesi dell’economia civile e l’insegnamento sociale della Chiesa. Un’economia che umanizzi l’uomo, una società che si civilizzi e si organizzi attorno al bene comune e non al bene totale di pochi.

Alcune caratteristiche dell’economia civile.

«»¢ L’economia civile ha la missione di educare all’idea teorica e pratica del principio di reciprocità. Il capitalismo tecno-nichilista, come detto, ha la tendenza a delegare alle macchine e al virtuale la relazione con gli altri e con la realtà stessa. In questo senso l’economia civile, che ha come fondamento il grande codice biblico, propone certamente l’apertura alla tecnologia, ma punta con forza sulle relazioni tra le persone, nonostante si viva nell’epoca della de-materializzazione.

L’umanesimo biblico ci ricorda che l’uomo è corpo, e per entrare davvero in relazione, come l’attività di cura richiede, non può fare a meno del corpo, del volto, degli sguardi.Un esempio clamoroso del primo tipo di contributo delle imprese civile alla creazione di virtù civili è proprio quello dato alla crisi finanziaria. Tante aziende tecno-nichiliste sono fallite, mentre le buone e vere imprese civili hanno attraversato la crisi senza eccessivi scossoni.

«»¢ Altra caratteristica: il mercato tecno capitalista diffonde solo la cultura della tecnica, del contratto e della massimizzazione del profitto. L’economia civile o mercato civile diffonde la cultura della reciprocità, del bene comune, della responsabilità civile d’impresa. Tutto questo chiede alle imprese e agli imprenditori civili, la saggia la cultura della reciprocità, del contratto, del dono, del profitto, della distribuzione della ricchezza.

Il tecno nichilismo finanziario è neutrale rispetto ai valori antropologici, non li genera attraverso le transazioni che possono al contrario rinforzare alcuni vizi sociali.

Come ha dimostrato l’ultima ricerca Oxfam, il tecno nichilismo finanziario non riesce a risolvere di per sé problemi delle forti diseguaglianze sociali, economiche e ambientali, anzi continua ad ampliarli. L’82% dell’incremento di ricchezza netta registratosi tra marzo 2016 e marzo 2017 è andato all’1% più ricco della popolazione globale, mentre a 3,7 miliardi di persone che costituiscono la metà più povera del mondo non è arrivato un solo centesimo.

Su scala globale, tra il 2006 e il 2015 la ricchezza a nove zeri è cresciuta del 13% all’anno, 6 volte più velocemente dell’incremento annuo salariale, di appena il 2%, che ha riguardato i comuni lavoratori. È proprio con l’economia civile che scopriamo la novità e l’importanza delle imprese civili e del loro ruolo decisivo ed insostituibile nelle moderne economie di mercato.

Attraverso la sussidiarietà circolare (responsabilità civile d’impresa VS RSI), la vendita di beni o servizi che contengono valore sociale ed ambientale e, grazie a questo intangibile, le imprese civili sono in grado di sollecitare una maggiore disponibilità a pagare da parte dei consumatori sensibili.

Le imprese civili a differenza delle imprese irresponsabili che rispondono con l’immunitas, sono in grado di sollecitare donazioni pubbliche o private per finanziare l’oggetto della propria attività.

L’economia civile grazie alla cultura della reciprocità riesce a generare le virtù civili come la fiducia, la gratuità la disponibilità a pagare per i beni pubblici, tutti elementi di cui il mercato e la società ha estremo bisogno per sopravvivere.

«»¢ Altra caratteristica: l’economia civile come detto non mira alla massimizzazione del profitto e di efficienza, ma rinforza le capacità del mercato di produrre anche, attraverso gli scambi solidali che promuovono l’autosviluppo dei produttori marginalizzati, riduzioni della diseguaglianza che impediscono la realizzazione delle pari opportunità e l’uscita dalla povertà estrema di ampie fasce della popolazione mondiale.

«»¢ Infine, ma non per ultimo, un principio fondante dell’economia civile è quello della cura. In tal senso ricorro alla parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10,29-37), che invece di tirare dritto come gli altri passati prima di lui, vide l’uomo per terra, lo guardò ed ebbe compassione. Il buon samaritano ha visto un’ingiustizia, l’ha registrata e ha pensato di dover agire. La presa in carico dell’uomo ferito è fondata sul bene comune e non sul bene totale ed egoistico.

La «com-passione» elemento fondante dell’antropologia biblica, è fondante anche per l’economia civile (a differenza del tecno nichilismo fondato sul darwinismo) non è un atto irrazionale ma è intriso di pensiero. Nell’economia civile, tra i fondamenti c’è anche il pensiero di prendersi cura… Tradotto: una vita buona, un’economia civile, guarda sostenibilità del profitto, ma non può tralasciare la premura verso il prossimo, la sollecitudine a favorire il benessere dell’altro, l’impegno a far fiorire le sue possibilità, al bene comune, altrimenti la società diventa incivile e di conseguenza anche l’economia diventa incivile. Già nel XVI secolo Thomas Gresham afferma l’assunto secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona.

1 Nata a Lugano nel 1962. Dal 2006 è impiegata nell’ufficio di Lugano di Sacrificio Quaresimale/Fastenopfer occupandosi di sensibilizzazione e della raccolta fondi.

2 Si consiglia di visionare: Domani, film documentario di Cyril Dion e di Mélanie Laurent, 118 min, 2015

3 Nato a Milano nel 1964, sposato con Maria Teresa (1999) e padre di Davide (2001) e Michelangelo (2007), è laureato in lettere classiche (Università degli Studi di Milano – 1988), licenziato in scienze religiose (Università di Fribourg – 1993), dottore in teologia (Università di Fribourg – 1996), baccelliere in Sacra Scrittura (Pontificia Commissione Biblica – 2012). È biblista professionista dal 1992 (dal 2001 insegna al CSSR di Trento). Dal 2003 presiede l’Associazione Biblica della Svizzera Italiana (www.absi.ch) e coordina la formazione biblica nella Diocesi di Lugano. Tra i suoi libri più recenti: Il cammino dell’amore. Lettura del vangelo secondo Giovanni, Edizioni Terra Santa, Milano 2016; Credere fa essere umani? Dal vangelo secondo Matteo alla fede quotidiana per tutti, Elledici, Torino 2016; (a cura di), MARCO. Nuova traduzione ecumenica commentata, Edizioni Terra Santa, Milano 2017.

4 Concordanza pastorale della Bibbia, a cura di G. Passelecq-F. Poswick, tr. it., EDB, Bologna 201212, pp. 175-176.

5 Cfr. Vocabolario della lingua italiana, V, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1986, p. 937.

6 Cfr. E. Würthwein, metanoéô, metánoia, in Grande Lessico del Nuovo Testamento (= GLNT), tr. it., VII, Paideia, Brescia 1971, coll. 1130-1131. Il sostantivo che vuol dire conversione è il derivato teshûvà.

7 J. A. Soggin, shûv, in Dizionario Teologico dell’Antico Testamento (= DTAT), tr. it., I, Marietti, Torino 1978, col. 800.

8 Cfr. Würthwein, metanoéô, metánoia, coll. 1131-1133.

9 Cfr. Soggin, shûv, col. 803.

10 Cfr. J. Blank, conversione, in Aa.Vv., Enciclopedia Teologica, a cura di P. Eicher, Queriniana, Brescia 1989, p. 146 (torneremo più avanti sul termine lev).

11 Cfr. J. Mer, conversione, in Aa.Vv., Dizionario Enciclopedico della Bibbia, Borla-Città Nuova, Roma 1995, p. 357.

12 Cfr. D. Vetter, penitenza. 1. Ebraico, in Aa.Vv., Ebraismo. Cristianesimo. Islam, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991, pp. 429-430.

13 Cfr. G. Bertram, apostréphô, GLNT, XI, 1979, col. 1366.

14 Delle 119 attestazioni di questa radice verbale, 37 (30 con il Signore Dio quale soggetto, 7 con l’essere umano in questo ruolo), tutte, lo ripeto, alla forma semplice passiva, rendono il senso di provare rincrescimento per qualcosa, pentirsi di qualcosa (cfr. H. J. Stoebe, nhm, DTAT, II, col. 60).

15 J. Behm, metanoéô, col. 1146. La sovrapposizione tra epistréphein e metanoéin è chiara anche in un passo di un libro primotestamentario di età ellenistica, ossia Sir 48,15

16 «La conversione neotestamentaria è molto di più che l’adozione di una nuova forma di culto e la modificazione di un modo di credere. Non si tratta di un semplice cambiamento di divinità e della ripetizione formale di articoli di fede. La conversione così come noi la comprendiamo impegna tutto l’essere dell’individuo in un progetto di vita donato da Dio. Non soltanto a parole, ma in atto e nella verità (cfr. 1Gv 3,18)» (B. Bolay, Conversion oblige. Les critères d’autenticité de la conversion selon le Nouveau Testament, «Hokhma» [55/1994], 54-55).

17 Su 37 attestazioni complessive di epistréphein/epistrophé 15 si trovano negli scritti lucani, mentre analoga appartenenza vale per 23 delle 47 ricorrenze neotestamentarie di metanoéin/metànoia.

18 Molti commentatori riconducono al registro conversione anche i testi degli Atti in cui è riportata la vocazione di Paolo (9,1-19; 22,3-16; 26,9-18). Tornerò criticamente su quest’aspetto trattando, nelle ultime pagine di questo saggio, il tema complessivo della chiamata paolina

19 Proprio perché il cambiamento a cui egli è disposto non è radicale, il ricco, rivoltosi a Gesù per sapere come divenire suo discepolo (Mc 10,17-22) non potrà divenire tale

20 J. Delorme, Royaume de Dieu, royaume d’enfance, in Aa.Vv., Ta parole est ma joie. Mélanges bibliques offerts au Père Léonard Ramaroson, Institut Supérieur de Théologie, Antananarivo 1991, p. 40)

21 Significativi in proposito sono alcuni passi dell’epistolario paolino, ossia Rm 2,4; 2Cor 12,21; Gal 2,20; 1Ts 1,9; 2Tm 2,25

22 Cfr. H. Mühlen, La scelta fondamentale, Ancora, Milano 1986, pp. 90-92.

23 B. Bolay, Conversion oblige, p. 59.

24 Se si pone attenzione particolare all’opera lucana si nota come non vi siano mai descrizioni del Regno futuro: «tutt’al più ci si può accostare alla rappresentazione che se ne offre, a partire dalle immagini e dai temi che gli vengono associati… Lc prolunga in ciò l’esperienza dei «testimoni oculari» che hanno incontrato nel Maestro la presenza efficace e salutare del Regno di Dio… In un’opera che dà tanto spazio all’esortazione, si capisce che menzionare il Regno venga ad appoggiare l’appello a perseverare nella fede (At 14,22) e nella preghiera (Lc 18,1; 21,36), a invitare all’impegno missionario (Lc 19,11-27; At 1,3-8; Lc 14,15-24), giacché è la promessa meravigliosa della salvezza che orienta e sostiene l’intera vita del credente» (A. George, Le règne de Dieu, in Id., Êtudes sur l’oeuvre de Luc, Gabalda, Paris 1978, p. 306).

25 Il tratto saliente dell’idea neotestamentaria di conversione si ha in ciò, che essa è fondata sulla rivelazione storico-salvifica avvenuta in Cristo (At 5,31), concepita come escatologicamente presente (cfr. At 17,30) e intesa universalmente (cfr. At 11,18). p. 147.

26 Bolay, Conversion oblige, p. 64.

27 Nato a Roma nel 1960, laureato in Giurisprudenza (Università La Sapienza Roma); laureato in Economia e Commercio Università La Sapienza Roma); baccelliere in teologia e filosofia (Università Pontificia Salesiana di Roma). Sposato e padre di quattro figli. Dal 1982 al 2006 funzionario di banca con varie responsabilità nel quadro dello sviluppo economico-finanziario; dal 2007 funzionario di banca con particolari incarichi nel campo delle attività sociali e non Profit. Dal 2013 Responsabile Enti Religiosi Strutture Centrali della Chiesa Regione Lazio e dell’Umbria (Gruppo Intesa San Paolo) e analista Terzo Settore ed Economia Civile in Italia ed Europa.

28 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, tr. it., Adelphi, Milano 1971, § 9 (35), p. 12.

29 M. Heidegger, L’abbandono, (1959), p. 36.

30 Frammenti postumi 1885-1887, fram. 2.

31 Cfr. La Morte del prossimo, Einaudi, Milano 2009.

32 Frammenti postumi 1885-1887, fr. 9.

30 Gennaio 2018 | 10:18
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