Quei cristiani nella terra di mezzo tra Turchia e Siria

«Quasi mi viene da dire che stavamo meglio sotto l’Impero Ottomano, quando il sistema dei millet ci garantiva più autonomia», dice padre Gabriele, prete siro-ortodosso la cui barba bianca si frappone fra il nero della tunica e del copricapo. Indica i terreni di competenza del monastero dello Zafferano, meraviglioso complesso di pietra nella provincia Sud-orientale turca di Mardin che, fondato oltre un millennio e mezzo fa, è stato a lungo la sede del Patriarcato dei siri-ortodossi, che ora ha sede a Damasco. Quella siriaca è una delle comunità cristiane più antiche del mondo, e padre Gabriele spiega come ancora una volta stia attraversando un periodo difficile. Le autorità turche sono da poco tornate sui propri passi dopo aver confiscato le proprietà siriache, fra cui monasteri, chiese, terreni e cimiteri. Non si sono però ancora decise a restituirle. «Abbiamo fatto ricorso, e inizialmente sembrava le cose andassero bene. Il Diyanet, il ministero per gli affari religiosi turco, ha dovuto restituire le proprietà al ministero del Tesoro. Adesso sono bloccate lì, come in un limbo. Se non dovessero tornare in nostro possesso, sarebbe un duro colpo per la comunità». Padre Gabriele scruta il paesaggio dalla sommità delle mura del monastero, lo sguardo preoccupato si posa sull’orizzonte siriano. In un’ora di macchina si potrebbe varcare il confine e arrivare dall’altra parte, dove infuria la guerra.

«Il problema della comunità siriaca è che non è stata riconosciuta come minoranza religiosa nel trattato di Losanna nel 1923», spiega Michelangelo Guida, professore italo-turco all’Università 29 Maggio di Istanbul. Allora, «soltanto ebrei, armeni e greco-ortodossi furono riconosciuti come minoranze. Questo comporta per i siriaci, assieme alla proibizione di gestire scuole e a una serie di altre limitazioni, problemi con la magistratura per quanto riguarda il riconoscimento delle proprietà». La comunità siriaco-ortodossa di Turchia si è ridimensionata negli anni, a fronte di scontri più o meno gravi con le istituzioni. I massacri dei giovani turchi, che fecero 250.000 morti fra i cristiani siriaci negli stessi anni in cui si consumava il genocidio degli armeni, decimarono la comunità circa un secolo fa. Più di recente, sono state le emigrazioni a ridurre il numero di fedeli a sole 25.000 persone, ancora in continua diminuzione.

La patria storica del Sud-est turco, che si divide i fedeli rimasti con la metropoli Istanbul, non è certo un contesto facile in cui sopravvivere. La guerra fra stato turco e PKK, partito dei lavoratori del Kurdistan, movimento per l’autonomia democratica curda considerato terroristico da Ankara, insanguina la regione e finisce per complicare la vita anche ai cristiani, malgrado la loro estraneità al conflitto. «Lo scontro fra due nazionalismi non può che portare sventure a una minoranza», dice padre Gabriele, in un monastero dello Zafferano tanto bello quanto svuotato di turisti stranieri. I visitatori mancano anche negli altri monasteri sparsi nella regione originaria di Tur Abdin (»La montagna degli adoratori», in siriaco), compreso quello di Mor Gabriel, uno dei più antichi del mondo. Oggi queste sono terre di mezzo fra Siria e Turchia: fra rifugiati in fuga dalla guerra e jihadisti stranieri che vogliono andare a combatterla, fra guerriglieri curdi e soldati dell’esercito turco, i siriaci sono abbandonati a se stessi. E portano avanti la loro battaglia legale con le istituzioni. «Ne va della nostra sopravvivenza», dice padre Gabriele.

«Oggi le principali comunità siriaco-ortodosse sono in India, Stati Uniti, Germania, Svezia», racconta, mentre cammina sulla pietra antica color zafferano del monastero. «Qualcuno c’è ancora in Siria e Iraq, anche se i massacri degli ultimi anni ci hanno fatto tornare in mente l’incubo del ›Seyfo’ (‘spada’, o ‘anno della spada’, è il termine con cui i siriaci ricordano i massacri del 1915).

Padre Gabriele è approdato al monastero dello Zafferano dopo le tappe monastiche di Gerusalemme e Damasco, sede del patriarcato siriaco-ortodosso dal 1959 (dopo un passaggio a Homs). Ci vive con altri trenta monaci cercando di navigare le numerose insidie della politica locale e pregando in aramaico – «la lingua che parlava Gesù», ci tiene a ricordare. «Andavamo molto più d’accordo con le autorità locali dell’AKP, il partito di Recep Tayyip Erdogan, piuttosto che con quelle attuali legate al partito filo-curdo HDP – racconta – ma certo l’affronto della confisca delle proprietà non fa bene al nostro rapporto con il governo».

In pochi minuti di macchina dal monastero si raggiunge il centro storico di Mardin. Le sue case di pietra antica sorgono sotto il castello che nel XIV secolo resistette all’avanzata del condottiero Tamerlano e che segna la sommità del paese. Alcune appartengono alla diaspora siriaco-ortodossa che rientra solo d’estate nella patria ancestrale, e che segue le sorti della comunità, da lontano e con preoccupazione.

Davide Lerner – BanglaNews 798

4 Settembre 2017 | 18:00
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