«»Valori, Fake news, Post-verità. La comunicazione cambia. Sfida per la Chiesa e per la Chiesa di Roma

Il dibattito italiano sulle «fake news» andrebbe collocato nell’ambito non tanto del vero o del falso quanto di una società che fa propria la «post verità». Per la Chiesa la sfida è comunicare valori, avere persone competenti e preparate, credere davvero nelle comunicazioni sociali.

Per la Chiesa di Roma una comunicazione reale ed efficace consiste nel raccontare le storie vere di persone vere che dalla fede hanno tratto alimento per la loro vita, affrontando con coraggio e fiducia difficoltà, dolori, traumi e guardando al futuro. Elementi importanti per comprendere come nella Chiesa sia importante avere una opinione pubblica ben formata e salda. D’altra parte non mancano testimonianze coraggiose sul piano laico, di quello che può fare un giornalismo impegnato, di inchiesta, che a partire dai fatti scava per andare a cercare i nuovi scenari che si delineano, anche sul fronte dei disvalori e della criminalità. In questo modo la comunicazione – il giornalismo- è elemento essenziale per la democrazia.

Sono questi i temi della puntata del 31 maggio della trasmissione «Roma: la Chiesa nella Città», realizzata e condotta da Fabrizio Mastrofini. Al termine del mese di maggio, che ha visto domenica scorsa la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, nella puntata si alternano in studio ben quattro ospiti.

Il primo è il prof. Brian Crable, statunitense, docente alla Villanova University di Philadelphia, ateneo agostiniano. Il secondo è don Walter Insero, responsabile dell’Ufficio per le Comunicazioni Sociali della diocesi di Roma; il terzo è Angelo Zema, responsabile del settimanale diocesano «Roma-Sette». E l’ultimo ospite è la giornalista Federica Angeli, cronista di «La Repubblica» che vive sotto scorta a causa delle minacce ricevute per le sue inchieste sulla criminalità organizzata.

Di seguito ripropongo l’intervista integrale con il prof. Crable, nella traduzione italiana. Il doppiaggio nella versione audio è a cura del collega Davide Dionisi.

Prof. Crable si parla di «mondo digitale». Pensa ci sia una «mentalità digitale» contrapposta ad una «mentalità analogica»?

Penso ci sia molto su cui riflettere a partire dall’impostazione che abbiamo dato al «mondo digitale». Le persone hanno difficoltà a comprenderne le caratteristiche e parte di questa difficoltà o malinteso deriva dal fatto che abbiamo «naturalizzato», reso naturale, un modo di pensare che per sua natura non è affatto naturale. Voglio dire che quando ci avviciniamo al mondo digitale, specie le persone come me che non sono nate o cresciute nel mondo digitale, ma lo hanno avvicinato in età più adulta – insomma noi non nativi digitali – dobbiamo accorgerci come gran parte dei nostri modi di vedere o di pensare non sono affatto naturali. Il nostro modo di pensare o di esprimerci deriva da una forma di comunicazione precedente. Così ad esempio valori come la razionalità, la logica, i diritti individuali, la stessa identità individuale, provengono dalla letteratura o comunque da una forma di comunicazione scritta. Tuttavia sono diventati dei temi o dei valori così consueti e utilizzati nel mondo occidentale da diventare parte del modo di vedere il mondo come esseri umani. Ed invece non è così. Ed ecco che abbiamo su tale tema una delle sfide centrali dell’era digitale. Per persone come me o persone che non sono nativi digitali è importante renderci conto che il nostro modo di pensare non è naturale.

Comunicazione come «ambiente». Non è una idea nuova. Birdhwhistell, della Scuola di Palo Alto, già ne parlava negli anni Cinquanta. La comunicazione – diceva – non è una scelta in quanto viviamo nella comunicazione, siamo obbligati.

Sono pienamente d’accordo con questo e non credo sia nuova l’idea che la comunicazione sia il sostrato, l’ambiente nel quale tutti ci muoviamo ed agiamo. E penso che ci sono tanti autori che hanno scritto su tale argomento e per molti anni ma non credo che in questo modo siamo andati oltre un ristretto circolo di specialisti. A mio avviso, pensare alla comunicazione come ambiente nel quale viviamo significa concentrarmi su come le tecnologie che abbiamo sviluppato non siano neutrali. Hanno ristrutturato la nostra visione del mondo e dunque hanno ristrutturato noi stessi. Voglio dirlo con l’espressione di una delle mie studentesse quando ha avuto per la prima volta nelle mani il suo iPhone. Disse: da adesso in poi non posso più meravigliarmi di nulla, né di un libro o un attore o un particolare film o non devo più chiedermi chi sia l’uno o l’altro perché attraverso la tecnologia ho subito le risposte. E questo deriva da un prodotto commerciale, dietro il quale viviamo un rimodellamento delle nostre abitudini. E così voglio dire che sono molto d’accordo con gli studiosi, anche lo studioso che lei ha citato, e allo stesso tempo credo che dobbiamo concentrare la nostra attenzione sul fatto che restano in piedi i fraintendimenti sulla comunicazione.

Il Papa tempo fa chiedeva di trattare il Vangelo come uno smartphone, cioè di averlo sempre con noi e di affannarci a cercarlo se lo dimentichiamo, come facciamo con il nostro telefono cellulare o con lo smartphone. Che ne pensa?

È interessante, nella sua frase e nelle frasi che ha citato, l’idea che parliamo in termini di «libri», anche se parliamo del Vangelo ovviamente. Ma pur sempre di un libro da avere sempre con noi. Era qualcosa che si poteva dire nel secolo scorso o ancora prima. Con questo non voglio dire che i libri non siano importanti e tantomeno voglio dire che il Vangelo non sia importante. Intendo sottolineare – piuttosto – che il significato dei libri e della cultura scritta è profondamente cambiato proprio dalla comunicazione digitale. In tale contesto la comunicazione scritta, la cultura scritta, i libri, non sono più così vitali e testi come lo stesso Vangelo hanno visto modificarsi la loro funzione ed il loro significato.

Come comunicare valori nella Chiesa con i nuovi media?

Certamente è una delle sfide nella misura in cui i nuovi media hanno ristrutturato il modo delle persone di entrare in rapporto tra di loro ed è uno dei temi al centro della mia attenzione. Non si tratta dia vere una sorta di «nostalgia» per come si faceva prima quanto di comprendere sempre meglio in che modo le tecnologie hanno modificato la maniera di percepire spazio e tempo o hanno modificato l’approccio stesso delle persone nel rapporto con gli altri. Non si tratta di valutare se i cambiamenti siano buoni o meno, non è una valutazione di tipo etico o morale quanto comprendere in che maniera funzionano i rapporti, senza dare nulla di scontato perché quanto riteniamo valido in un settore o in un’area geografica non è detto lo sia in un’altra area. Il cambiamento funziona, a mio avviso, quando riconosciamo che il mondo è sempre in trasformazione e questa è anche la sfida per la Chiesa. Dal mio punto di vista non si tratta di accettare semplicemente la realtà come si presenta e dunque non si tratta di imparare ad usare Facebook o le piattaforme dei social da parte della Chiesa. Si può certamente fare però forse sarebbe più utile chiedersi come ristrutturare il modo in cui queste aziende vedono e comprendono il loro ruolo all’interno di un contesto globale. Non si tratta di esercitare pressioni o implementare tecnologie verso popolazioni o nazioni povere. La Chiesa potrebbe invece, a mio avviso, sensibilizzare queste aziende a lavorare con le comunità o nazioni più povere per fare in modo che le tecnologie non siano semplicemente a servizio delle grandi sigle aziendali o al servizio degli interessi individuali, in una visione più ampia di beneficio delle comunità umane.

È d’accordo con l’idea che sia necessaria una vera opinione pubblica nella Chiesa? E come fare tenendo presente che ci sono diversi livelli – dalla parrocchia alla diocesi, fino alla Santa Sede – e dunque non si tratta di un lavoro semplice?

Sono molto d’accordo anche in considerazione del supporto globale di cui gode Papa Francesco. Voglio dire chiaramente c’è un’opportunità di cementare davvero una particolare comprensione di ciò che significa fare parte della Chiesa stessa o che cosa significa la cura per l’ambiente o impegnarsi a favore dei popoli impoveriti o dei popoli più emarginati. Credo che questo sia assolutamente il caso. E certamente penso che se l’atteggiamento della Chiesa fosse di non impegnarsi in nuove tecnologie allora sarebbe estremamente problematico proprio perché come dicono gli studiosi di cui si parlava prima, ogni atto è comunicativo ed anche non agire vuol dire comunicare qualcosa. Ed è così anche per la Chiesa: impegnarsi o non impegnarsi è a sua volta una scelta che porta delle conseguenze. Allo stesso tempo il tipo di impegno messo in atto da queste tecnologie è assai impegnativo per la Chiesa, perché se sei sulle piattaforme dei social media in un modo che apre una sorta di dialogo le persone di tutto il mondo, allora c’è la possibilità per le persone di realizzare dei cambiamenti piuttosto che semplicemente usare degli spazi. Impegnarsi nel dialogo – se poi dialogo è in questo caso la parola giusta – è appunto una sfida, come abbiamo visto anche recentemente negli usa, quando i social media sono stati utilizzati per generare odio e violenza ed è appunto un’esperienza che abbiamo fatto ora. Ma così per la Chiesa la sfida diventa coinvolgente in questo nuovo mondo digitale e in tutte le maniere in cui ci trasforma. Per una singola persona può diventare lo stimolo ad avere rapporti con altri in tutto il mondo per aprirsi ed è certo differente rispetto al ruolo che può avere il papa stesso e tuttavia sono fermamente convinto che viviamo in una situazione in cui si aprono nuove opportunità così la eventuale scelta di non impegnarsi diventerebbe assai problematica.

In Italia in questi mesi abbiamo un ampio dibattito sulle «fake news». Lei che ne pensa?

Proprio a partire dalla definizione vedo dei problemi aperti. Noi preferiamo parlare – come spiego ai miei studenti – di una società «post-verità» (post truth society), come vediamo quando l’attuale amministrazione statunitense sottolinea aspetti della realtà che forse non corrispondono ai fatti. Ed è proprio qui il problema, cioè in rapporto a gruppi di persone – che possono rivelarsi anche molto ampi – che sono disposti a non porsi il problema e accettano di vedere il mondo come viene loro proposto, legittimando le fonti a disposizione. Allo stesso tempo non accettano che le «fake news» vengano definite tali e soprattutto non è un modo persuasivo di parlare a persone che vedono o interpretano il mondo in maniera diversa dalla nostra. Così quando parlo ai miei studenti preferiscono dire loro che viviamo in società post verità e diventa importante chiedersi quali visioni del mondo abbiano le persone e in che modo questa visione legittimi per loro alcune fonti rispetto ad altre. Così a mio avviso la domanda non è tanto su questo «outlet» di notizie false quanto mettere al centro della riflessione il sistema di credenze che porta ad accettarle.

Cosa suggerisce per una formazione sul tema della comunicazione?

Le posso dire l’approccio che usiamo alla Villanova University. La comunicazione non è acquisizione di tecniche o semplicemente una serie di caratteristiche o un elenco di competenze necessarie così che o le possiedi o non le possiedi come una sorta di equipaggiamento da battaglia. Da questo punto di vista proprio il dibattito sulle «fake news» aiuta a comprendere l’importanza di un approccio differente, più globale ed integrato. Noi utilizziamo un approccio di tipo concettuale per far comprendere cosa significa porsi in una prospettiva comunicativa. Solo dopo si tratterà di sviluppare competenze ed abilità specifiche. Ma per noi la comunicazione non è la pura e semplice trasmissione di informazioni o lo scambio di idee. No. Comunicazione è la stessa condizione umana; è il modo in cui costruiamo il nostro mondo e ci abilita alla comunicazione reciproca. È il modo in cui ci impegniamo a costruire rapporti interpersonali e relazioni. Il processo costitutivo non è la trasmissione di informazioni bensì la procedura di costruzione del mondo. Da qui si parte verso le competenze specifiche.

1 Giugno 2017 | 10:33
Tempo di lettura: ca. 7 min.
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