Cristina Vonzun

Rio 2016: il messaggio del team dei rifugiati

Sono iniziati i Giochi olimpici a Rio de Janeiro. L’auspicio che tutti possiamo evidentemente fare nostro è che siano un evento di sport, di competizione, di crescita umana di chi vi partecipa e di bellezza e passione sportiva sana per gli spettatori. Sarà così? Devo dire che anno dopo anno avverto una certa disillusione davanti a queste grandi sfide sportive, perché purtroppo mi sto tristemente abituando al fatto che qualche tempo dopo vengano puntualmente alla luce brogli di varia natura, dovuti al doping o a controlli antidoping falsati e altro ancora. Insomma, sembra impossibile pensare a questi grandi eventi agonistici e sociali come in realtà dovrebbero  essere: una festa dello sport  competitivo. Un primo dato comunque bello e rilevante, che ha aperto questi Giochi ad una sensibilità  nuova e totalmente altra rispetto all’attenzione esasperata al trend di vittorie e al numero di medaglie che gli atleti portano a casa, è la presenza della squadra dei rifugiati. Non era mai successo. Indubbiamente è un segno di un mondo che cambia, che si sta riconfigurando, dove emergono nuove categorie sociali che devono avere i loro spazi. La presenza di questa squadra sul palcoscenico olimpico manda dunque un primo messaggio a Stati e nazioni: lo sport è un grande veicolo di integrazione, a tutti i livelli, non solo per i giovani di casa nostra, ma anche e soprattutto per i migranti e profughi di quest’ultima generazione. Un secondo messaggio che la presenza di questa inedita squadra olimpica offre, lo colgo dalle parole che papa Francesco ha voluto rivolgere al team. Bergoglio ha auspicato che il «coraggio e la forza» di questi giovani, possa esprimere «un grido di fratellanza e di pace». Coraggio e forza sono due elementi dell’eccellenza olimpica, magari un po’ caduti in disgrazia nel mondo dello sport di oggi, surclassati da altri, quali la caccia alle vittoria per la vittoria, alla fama, alla gloria, anche al semplice arricchimento del totale delle medaglie di una nazione nel tabellone olimpico.  «Coraggio e forza» sono valori iscritti tra le virtù che le Olimpiadi  -fin dall’antichità- hanno perseguito e che il mondo dello sport oggi ha bisogno disperatamente di rimettere al primo posto, ridando autenticità a quell’eccellenza olimpica trasfigurata dal mondo dell’economia e degli interessi.  Solo per essere veicolo di due messaggi la squadra dei rifugiati ha vinto una medaglia che vale più dell’oro olimpico. E visto che non parliamo di categorie ma di persone, diamo onore a chi l’onore lo merita. I 10 giovani componenti della squadra dei rifugiati gareggiano in tre discipline: atletica, nuoto e judo. In Atletica: James Chiengjiek (400 m maschili), Yiech Biel (800 m maschili), Paulo Lokoro (1.500 m maschili), Yonas Kinde (maratona maschile), Rose Lokonyen (800 m femminili), Anjelina Lohalith (1.500 m femminili). Nel nuoto: Rami Anis (100 m farfalla maschili), Yusra Mardini (200 m stile libero femminili). Nello judo:  Popole Misenga (90 kg maschile), Yolande Mabika (70 kg femminile).

8 Agosto 2016 | 20:13
Tempo di lettura: ca. 2 min.
olimpiadi (22), rifugiati (44), rio (5)
Condividere questo articolo!