Emanuele di Marco

Pellegrini, e non vagabondi, della vita!

di Don Emanuele Di Marco

Nel precedente articolo abbiamo incontrato il problema della paura. Lo chiamiamo «problema», anche se in effetti è qualcosa di più profondo. Lo potremmo definire uno stato, un’abitudine, un modo di pensare e di agire nella nostra contemporaneità. Abbiamo paura di rimanere disoccupati, di avere una malattia, di non essere voluti bene, di subire un attacco terroristico… mettiamo tutto nello stesso calderone, creando un vero e proprio gomitolo di paure che si intrecciano e diventano una matassa difficilmente gestibile. Non solo: abbiamo quella costante sensazione di non essere adeguati alla situazione nella quale ci troviamo. Questo ci crea un senso di inadeguatezza della vita. Non ci sentiamo al posto giusto. Nella vita non ci sentiamo più… «a casa». In queste poche righe, vogliamo riflettere sulla differenza tra questo stato di paura e lo stato invece di coraggio. Uno chiude, l’altro apre. Non stupisce, infatti, che lo stato di paura che abbiamo descritto sopra crei il desiderio di innalzare delle barriere intorno a noi. Per questo si diventa un po’ razzisti, un po’ scettici verso le novità, un po’ dubbiosi verso chi o cosa ci è vicino. Si alimenta la diffidenza verso ciò che ci viene comunicato o presentato. Tutto perché abbiamo paura, il nostro timore è alimentato costantemente. Nulla appaga, nulla soddisfa, nulla riempie. Possiamo cercare di mettere la nostra certezza nelle disponibilità economiche. Una volta raggiunte… non soddisfano. Nell’auto nuova… una volta ottenuta, attendiamo già il modello nuovo. Per lo SmartPhone neanche da dire… appena comprato, è ora di cambiarlo. Il problema non è solo questo. Lo sappiamo che le cose materiali non ci riempiono. È subentrata anche la paura che tutto questo ci venga tolto. E allora l’uomo diventa fugace. Non si affeziona, continuando a cambiare l’oggetto dei suoi desideri si perde in una spasmodica ricerca di chissà quale soddisfazione. Ma questo lo sapevamo già… il timore di perdere tutto cambia ancora il nostro modo di vivere perché lo rende ancora più pesante. Difficile trovare situazioni di pace e tranquillità, in tutto questo. L’uomo attuale è un vero e proprio vagabondo. Senza fissa dimora, si affeziona a tutto e a niente, corre senza mèta tra le varie proposte che gli possono dare un minimo di soddisfazione. Vagabondo. La proposta cristiana non è semplicemente questione culturale: piuttosto, invito ad uno sguardo nuovo sulla realtà e sulla quotidianità. Che l’uomo sia «mobile» (qui non intendiamo solamente a livello fisico) è evidente. Il nostro cuore si dà da fare per trovare qualcosa che soddisfi. Vivere il Vangelo significa avere una mèta in questo continuo muoversi. Un punto al quale orientare la propria esistenza. La voce del Signore nel proprio cammino di vita diviene compagna di viaggio perché consente di scegliere, passo passo, in base alla mèta. Chi sono, dove vengo, dove vado? Aver eliminato le domande profonde del nostro cuore ha determinato quello smarrimento che ci vede un po’ persi, un po’ impauriti. Ora, si tratta di ritrovare la mèta. Siamo creature e come tali ci riconosciamo. Ma non basta… è importante vedere dove l’orizzonte della nostra vita: le parole di Gesù «vado a prepararvi un posto» (cfr. Gv 14,2) trasformano il nostro vagare. Non siamo vagabondi, ma pellegrini. Il cristiano pure di muove, anche il suo cuore si interroga e desidera. Ma tutto questo ha un traguardo. Non si vaga, si cammina!

10 Marzo 2015 | 15:30
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