Denise Carniel

La forza di volersi bene

Mi rendo conto di amare moltissimo le persone. Quelle che nel loro non fermarsi fanno i conti con pensieri spettinati, che creano usando terra scomoda, che scrivono stringendo i propri desideri fortissimamente, da chi ci crede sempre nell’impossibile: sono affascinata da chi, anche se non ha nulla a che vedere con la poesia, la pratica sempre, come stile di vita, perché caspiterina non è facile.

Sono certa che abbiamo avuto tutti, prima o poi, il compagno di classe rompiscatole – che si è magicamente trasformato nel collega di lavoro poco sopportabile – e pomeriggi massacranti in cui ti chiedi soltanto quando finiranno di arrivare le scartoffie sulla scrivania e ti senti davvero a pezzi, dentro un ufficio. In questo caso io apprezzo chi continua ad avere una sola priorità: praticare gratitudine per tutto il bene, per il cielo, per le stelle, per tutto il buono, come un grazie vivo e condiviso.

Perché anche se nei miei scritti ho deciso che non vi parlerò mai di politica in senso stretto, di dolore come se fosse incolore e di religione in maniera troppo complicata, a volte mi accorgo che vorrei davvero che gli onorevoli faticassero a mettere insieme il pranzo con la cena, o che per il bel completo visto dietro la vetrina di un negozio di grido dovessero risparmiare per mesi, così come per comprare i libri e il materiale scolastico ai loro bimbi e che si rendessero conto come comprare cose nuove ad ogni cambio stagione sia complicato. Penso che provare in prima persona quanto sia dura la vita cambi la consistenza di qualsiasi protesta, perché non è giusto che si debba essere, troppe volte, davvero bravi a fare miracoli.

Mi piacerebbe che il primario di qualsiasi ospedale, il dolore lo conosca, lo rispetti e lo capisca. Sempre. Che sia uno, che dopo mille decisioni di ordinaria amministrazione si prenda il tempo di passare in corsia – persino a fine turno – sorrida e chiami per nome, mentre guarda e si interessa davvero a chi ha solo il nome scritto su un bracciale e la data di nascita sulla testiera del letto. Che sappia come ti si annoda lo stomaco quando arriva la paura, e per questo regali sempre una voce gentile e morbida, a far da contrasto a angoli di cuore ruvidi perché pieni di dubbi. Che sappia quanto essere sintonizzati sulla giusta frequenza renda accettabili persino assenze incolmabili, perché certe presenze sono sempre lì, anche quando non le vediamo, e basta un petalo d’estate sul cuore, anche quando fa freddo per non sentirsi troppo soli.

Mi piacerebbe che all’università venisse insegnata la bellezza della libertà di un pensiero libero, critico e capace di profonda empatia, che la persona in quanto tale fosse al centro di ogni libro e di ogni decisione. E che più che all’errore, venisse dato risalto al riuscire al trasmettere gioia, all’empatia, all’educazione.

Credo anche sarebbe giusto che chi si batte per il lavoro, sappia cosa vuol dire lavorare duro. Che conosca la stanchezza disillusa di chi deve ancora pagare il prestito in banca dopo anni di lavoro, l’apparecchio per i denti, la medicina troppo cara o quella cura inaccessibile, quel rimedio naturale. Perché è davvero brutto essere sfiniti e non riuscire a dormire pensando ai debiti e a una vita diversa.

Mi piacerebbe se si andasse oltre l’accademia, se si parlasse per ragion veduta. Perché sono convinta che solo così la dignità non sarà mai svenduta, e non ci saranno più troppi blabla sulle spalle dei morti.

Ma il mondo non si costruisce sui vorrei, e sui facili giudizi. Perché se di cose da fare ce ne sono sempre tante, voglio rendere reale quello che desidero. Voglio essere io per prima governante, dottore e militante, mettendomi a donare ciò che così tanto desidero: umilmente, mettendomi a disposizione con ciò che conosco. Insieme ad un amore più grande di me, che spesso lascia aloni, come fiato, sopra i doppi vetri.

Non saprò auscultare un cuore – quella cosa che fanno quando ti visitano con lo stetoscopio – o parlare a una seduta del Gran Consiglio, e sarei pessima a organizzare marce di protesta, ma so avere le braccia aperte, gli occhi aperti aperti e le orecchie attente. So distinguere la felicità dalla noia, la verità dall’abitudine, la facilità dal sacrificio. E non è esattamente «niente», imparare a meritarsi di stare bene.

Perché non è mica facile capire che la persona che sei esiste, che non si è invisibili all’universo mondo, che per qualcuno si arriva anche ad essere speciali. Perché non so voi ma io ci ho impiegato anche troppi anni a capire che per la maggioranza delle persone le parole mica corrispondono ai fatti, e che non sempre una carezza vuol dire amore.

So perfettamente cosa vuol dire correre dietro a chi sarà sempre dieci passi più avanti di te – per scelta – e che nonostante la tua lotta per tenergli – e tendergli – la mano ti lascerà lì, tra lacrime troppo pesanti e disperazione troppo spessa per essere tagliata, come la margherita tra l’erba, che mica viene vista dal tosaerba.

Ma che sia giusto provare ad arrampicarsi per sentire accanto alla nostra la mano di chi amiamo, di camminare ore per raggiungere cuori inarrivabili, e immolarsi nella speranza che il nostro sacrificio ci porti un fiore nell’anima, una briosche al sapore di bacio, e un buonanotte senza troppe lacrime sul cuscino.

Ricordo che quando ero piccola nonostante avessi gli occhi dolci, la bocca fragile e le trecce perfette nessuno voleva giocare con me, ed è stata dura. Perché da piccoli ci vuole del tempo per capire che bisogna lasciar perdere e giocare (stare) solo con chi ci vuole bene. E non nascondo che a volte mi chiedo ancora perché non ci fosse nessuno che mi voleva. Ero solo una bimba dall’animo storto, che non chiedeva altro che essere accettata, che ancora non conosceva la differenza tra approvazione e stima, che era tanto profumata e gentile, che voleva solo accoglienza e amore.

E ci credo perché il segreto non è elemosinare, insistere. Ma l’opposto, volersi tanto bene da, dopo averci provato, lasciare. E vedere se chi vale torna, perché il posto accanto a noi, merita sul serio. Ma non bisogna darlo a chiunque quel posto, perché ci è voluto tanto per conquistare un cielo che sia nostro, e quindi bisogna conservarlo per chi osserva noi e il nostro spettacolo di alta magia con la forza di non oscurare la nostra stella, di non detestare la luce quando è fioca, di prendersi cura dei nostri fiori quando noi siamo in vacanza.

Si ci sono persone che afferrano la nostra gentilezza anche quando fa «grrr» come una tigre, che ci dicono «sei bella» anche quando sappiamo di non essere al meglio, cose che servono. E che ci fanno capire che non ci vuole chissà che cosa se non di non distruggere gli altri, e di aggrapparci alle stelle, per raggiungere ciò che vogliamo davvero, dando la sicurezza ad altri che ci si può riuscire.

Perché si a volte la tristezza viene come un terremoto, invade tutto senza che nessuno possa farci nulla. Ma credo che nonostante la malattia, le perdite e tutto il resto, il nostro compito sia di andare a cercare ciò che ci riempie, perché possa invaderci. Dobbiamo andare a cercare l’emozione, la nostra cosa bella, a costo di sembrare ridicoli. A costo di azzardare.

Perché se si azzarda, si trova. Si trovano persone che ci vogliono. E ce lo fanno capire senza grandi proclami. Ma salutandoci calorosamente quando arriviamo, non accontentandosi di un nostro arrivederci ma stringendoci forte quando andiamo via; chi ci offre un caffè, un cornetto, o di condividere una canzone. Sto parlando di chi ci ha ascoltato e a detto: ” sai non me l’aspettavo», di chi ci dà la forza di pensare che «non esiste niente che non possiamo fare», a chi ci ha donato leggerezza tra una forchettata e un ballo; sto parlando di semi sconosciuti che mi hanno fatto compagnia su un treno davvero speciale, con cui ho diviso storie e occhiali da sole, che sono diventati miei amici sinceri, di chi è diventato per me fondamentale, scegliendo me, il mio bene, quando poteva diversamente.

Perché se si azzarda si capisce che per quanto ci sia il rischio di rimanerci male e di prendere un ulteriore cantonata, ci si può anche rendere conto che le storie belle, i momenti da ricordare, non sono solo scritti da qualcun altro, ma anche da noi. Che i profumi buoni della vita, possiamo crearli noi – e senza giocare al piccolo chimico facendo esplodere la cucina – ma semplicemente rendendoci conto che basta poco per essere la parte dolce in una cena.

E parlando di cene, ci tenevo a condividere un momento che mi è successo circa un mesetto fa. Stavo cenando in un ristorante molto carino, quando ho conosciuto Giulia. Una bellissima bimba affetta dalla trisomia 21, ovvero sindrome di down. Dico bellissima perché era luminosa, e lo spazio tra i due dentini davanti la rendeva simpatica al primo sguardo. E ogni volta che le arrivava del cibo lo accoglieva con un entusiasmo pari solo al mio.

La sua mamma mi è apparsa subito molto giovane – credo mia coetanea – e il suo papà non di troppi anni più grande. Non hanno mai smesso di sorridere durante tutta la cena e raramente mi è capitato di vedere una bimba tanto felice. Mi ha commosso vedere tanto e tale amore tra sole tre persone: un amore bello, puro e che rendeva tutto il contesto così…ininfluente. Entrambi la baciavano molto e mentre lei tagliandole la carne faceva le facce buffe, lui le faceva il solletico sulla pancia.

Quando è stata l’ora di andare Giulia, si è fatta spazio tra i tavoli, e ha regalato bacini sventolando la sua manina. E’ stato lì che ho catturato il mio bacio e ho scoperto il suo nome. E guardandola mi sono detta che sarebbe davvero un mondo più bello, se tutti avessero cura di sfiorarlo così, di avere una tale attenzione: lei salutava tutti, con uno sguardo così fiducioso e aperto. Pieno. E mi sono accorta che avrei voluto proteggerla, proteggerla dagli schiaffi di una vita che non ti risparmia nulla. Le ho augurato di non conoscere mai nulla di davvero brutto, capace di indurirle lo sguardo, ma ho sperato ci sia sempre qualcuno pronto ad accarezzarla se così fosse, perché io lo farei. Perché anche se questo mondo non è a forma di nessuno, dovrebbe prendere il calco del cuore di Giulia.

A cui vorrei dire di non avere mai paura, di raccontarsi sempre storie che sappiano di mare e di orizzonti, di mettersi a ridere di fronte a chi non concepisce i suoi occhi a mandorla dolce o due ragazzi che si amano, di non smettere di cantare anche se le piaceranno dei brani che nessuno tra poco ricorderà più, di non smettere di amarsi mai anche quando sarà la seconda scelta di qualcuno – per cui soffrire mica vale la pena, mai – di sentire il profumo buono di chi resta sulla pelle, perché la disabilità non è una malattia.

Ci sono essenze che spaventano sì -perché ti entrano nella pelle come un brivido – ma altre che ci riavvolgono, come in una dolcissima coperta: l’odore della minestrina di quando eravamo piccoli piccoli, il nostro primissimo bagnoschiuma, la consistenza leggera che si perde nell’aria mentre davamo il nostro primo bacio, il profumo della propria mamma ritrovato dopo anni, il profumo del sacrificio del primo passo da soli, della prima parola, dell’indipendenza intrapresa.

E so che prendere come esempio chi è diverso può apparire contro natura – dare un’ altra variabile alla solita x fa paura –  «ma un miracolo è per definizione una sfida alla natura, e la natura fa ogni giorno dei miracoli» diceva uno dei miei attori preferiti in un film.

30 Luglio 2018 | 14:09
Tempo di lettura: ca. 7 min.
amicizia (20), amore (34), fiducia (6)
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