Cristina Vonzun

La fede dei campioni olimpici

Di Cristina Vonzun

In questi giorni zeppi di notizie provenienti da Rio anche riguardanti la vita privata dei medagliati olimpici, diversi siti cattolici compiono l’interessante e lodevole lavoro di mettere in luce la fede o le credenze dei campioni dello sport. Devo dire che applaudo di cuore a questa necessaria iniziativa, che serve almeno a dimostrare che Michael Pelps, Simon Beil e Usain Bolt, per fare i nomi di tre indiscusse stelle di questi Giochi, la fede l’hanno trovata o l’avevano fin da piccoli e, in almeno due dei casi citati (Pelps e la Beil), emerge grazie ai media, che in questo momento questa conferisce un senso profondo alla loro vita. Detto questo peró vorrei precisare un pensiero relativo a questa tematica: stiamo attenti a non banalizzare il rapporto pratico tra la fede e lo sport agonistico.  La fede come orizzonte di senso nella vita di un atleta è infatti altra cosa rispetto alla superstizione. Perché – e le ragioni date dalla fede, come quelle date dalla filosofia o dalla pratica (per chi ci crede) dello zen, lo dimostrano, non si vince solo con il fisico, anzi, mai si vince solo di forza. Allora la fede serve? Diciamo che servono motivazioni positive e non banali, che un atleta, credente, non credente, ateo, agnostico eccetera, fa sue per gestire quella testa senza la quale non si potrebbe competere a lungo dal punto di vista sportivo, neppure quando ci troviamo in presenza di atleti professionisti, corteggiati dagli sponsor. Anzi è proprio l’alta percentuale di attesa che il mondo dello sport professionistico riversa sugli atleti che spesso ingenera in loro dei meccanismi di stress difficili da dominare. A questo livello entrano in gioco altri elementi che permettono alla performance sportiva di mantenersi o addirittura di incrementarsi: sono le motivazioni, gli orizzonti di senso che aiutano a gestire il pianeta emotivo. Nello sport insomma, c’è molta piú testa di quanto l’immaginario collettivo ipotizzi. Costanza, impegno continuo nell’allenamento, ricupero da infortuni, capacità di resistenza alla fatica (anche al dolore), rinunce e sacrifici, soprattutto la resistenza emotiva che consente di sostenere lo stress di una gara, e ancora- parlate con un atleta di élite e lo scoprirete – la tensione che nasce dal dover confermare il risultato, tutto questo chiede motivazioni alte ed un fortissimo lavoro di «testa». Ne parlava in questi giorni Michael Pelps, che ha affrontato una spaventosa crisi umana e psicologica da cui è uscito anche grazie alle motivazioni trovate nella religione oltre ad un importante lavoro psicologico. Motivazioni religiose, autostima ricuperata, lavoro sulla dimensione emotiva, sono elementi che intrecciati o presi singolarmente rivestono un’importanza decisiva  nella pratica della competizione sportiva ad alti livelli. Per questo si può legittimamente parlare di una relazione pratica tra fede e sport, da non ridursi però a fenomeni di mera superstizione.

16 Agosto 2016 | 19:45
Tempo di lettura: ca. 2 min.
fede (114), olimpiadi (22), sport (39)
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