Ernesto Borghi

La fede cristiana e la Chiesa di Gesù Cristo hanno un futuro per i giovani di oggi e domani?

Chi entra oggi la domenica in una chiesa, per esempio italiana o ticinese, durante una celebrazione come una Messa, e si chiede quale sia l’età media di coloro che partecipano, nota che essa è sensibilmente più alta di quanto riscontrabile anche soltanto vent’anni fa. Bambini, ragazzi e giovani non sono assenti, talora sono anche numerosi, ma la disaffezione delle giovani generazioni nei confronti dei momenti di culto e di non pochi altri momenti della vita religiosa cristiana è un dato di fatto. In altri Paesi europei la situazione è certamente ancora più negativa, ma ciò non autorizza a provare alcun sollievo nelle regioni a maggioranza italofona.

Quello che è chiaro è che per un numero assai rilevante di ragazzi e giovani – ma anche di adulti – varie manifestazioni ecclesiali, cultuali e non, vengono percepite come lontane dalla vita, dunque noiose, inutili, cioè da non frequentare. Certo: vi sono gruppi ecclesiali che, in ragione di una fidelizzazione variamente spiegabile, sembrano garantire partecipazioni ancora nutrite a molte celebrazioni religiose, ma, anche in questi casi, pure in ragione del calo demografico dagli anni Novanta del secolo scorso in poi, il novero delle presenze diminuisce. Quali sono i motivi di questo fenomeno?

Viviamo in società dove l’arricchimento economico, l’esibizionismo esteriore e l’efficientismo strumentalizzante sono obiettivi presentati spessissimo come fondamentali per essere «vivi» e «moderni». In questo quadro una prospettiva di vita come quella cristiana, basata sull’intensità interiore e sull’impegno gratuito e solidale a favore degli altri, a cominciare dai più poveri e deboli, non risulta per nulla significativa, anzi deve essere scartata. Inoltre occorre anche riconoscere che spesso, nella Chiesa, quando si vuole educare alla fede, si propongono ancora modelli precettistici e autoritari che sono eredità di un passato largamente non cristiano o prospettive moralistiche e rigide che con l’amore evangelico non hanno relazione sostanziale. E il linguaggio che frequentemente è utilizzato in molti momenti liturgici e formativi appare incomprensibile in particolare a ragazzi e giovani cresciuti, per esempio, nel terzo millennio, con altri parametri espressivi e con un lessico comunque diverso da quello delle due generazioni che li hanno preceduti.

La fede cristiana può certamente avere un luminoso avvenire per ogni generazione a cominciare dai giovani – e papa Francesco in proposito è un testimone evangelico straordinario nel nostro tempo anche tramite la luminosa esortazione apostolica «Gaudete et exsultate» – ad una condizione essenziale. Quale? Cercare di parlare al cuore delle persone e proporre dei valori umanizzanti che nella vita concreta siano radicati e praticabili senza equivoci e senza finzioni, creando ponti e non erigendo barriere tra chi vive oggi sul nostro Pianeta. E lasciando cadere tutte le «tradizioni tradizionalistiche» che sono lontane dal Vangelo di Gesù Cristo, valorizzando l’effettiva «tradizione» che dalle origini del I secolo, radicata nel filone giudaico non precettistico, manifesta essenzialmente questo: la bellezza e la bontà dell’amore di Dio in Gesù Cristo per la vita di qualsiasi essere umano.

In questo quadro quali sono le caratteristiche fondamentali dell’essere giovani? Direi anzitutto curiosità esistenziale, spontaneità, fiducia nell’avvenire, voglia di cambiare in meglio la situazione dei contesti sociali di cui si fa parte e delle persone che li costituiscono, creatività, senso di libertà. Queste condizioni, che certamente sono proprie della giovinezza anagrafica, ma anche di non pochi appartenenti alla 3° e 4° età, possono trovare nella fede cristiana, di generazione in generazione, un punto di riferimento del tutto decisivo. Come? In primo luogo tramite un rapporto vivo e vitalizzante con i testi del Primo e del Nuovo Testamento, senza moralismi e fondamentalismi, nelle forme più interattive possibili.

Iniziamo, con questo articolo, a proporre alcuni esempi tratti dal vangelo secondo Marco, la versione evangelica-guida dell’anno liturgico 2017-2018 secondo il rito cattolico romano. La traduzione e i riferimenti di commento sono tratti dalla nuova traduzione ecumenica commentata del testo marciano proposta dall’Associazione Biblica della Svizzera Italiana per i tipi delle Edizioni Terra Santa, casa editrice della Custodia Francescana di Terra Santa dall’ottobre 2017, nel quadro del progetto cultural-pastorale 2017-2021 «Leggere i vangeli per la vita di tutti». Il primo esempio è quello offerto dai primi venti versi di questa versione evangelica, qui commentati da Eric Noffke, metodista, professore di Nuovo Testamento alla Facoltà Valdese di Teologia di Roma (vv. 1-13) e da Angelo Reginato, pastore battista a Lugano (vv. 14-20):

 

11Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio][1]. 2Proprio come è scritto nel profeta Isaia:

Ecco, mando il mio messaggero davanti a te,

il quale preparerà la tua strada.

3Voce di uno che grida nel deserto:

preparate la strada del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri.

4Giovanni, colui che battezza, venne nel deserto. Proclamava un battesimo che è cambiamento di mentalità e di azione in vista del perdono di una vita senza senso. 5E andava verso di lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E venivano battezzati da lui, nel fiume Giordano, dichiarando apertamente la loro vita senza senso. 6E Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai suoi fianchi, e si cibava di locuste e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene, dopo di me, uno che è più forte di me e io non son degno, chinandomi, nemmeno di sciogliere i legacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà immergendovi in uno spirito di santità».

9E avvenne in quei giorni: Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. 10E, subito, uscendo dall’acqua, vide i cieli lacerarsi e lo Spirito, come una colomba, scendere verso di lui. 11E venne, dai cieli, una voce: «Tu sei mio Figlio, l’amato, in te ho riposto il mio amore».

12E subito lo Spirito lo sospinge con forza nel deserto. 13Ed era, nel deserto, quaranta giorni, messo alla prova da satana; ed era con le bestie selvatiche, e gli angeli lo servivano.

 

1-8: I versetti da 1 a 8 costituiscono il prologo al vangelo secondo Marco, in cui vengono messi in evidenza alcuni elementi utili al lettore per inquadrare la storia che sta per essergli raccontata: si tratta della buona notizia di Gesù il nazareno, Figlio di Dio, che arriva preceduto dal suo araldo, Giovanni il Battista, proprio come avevano annunciato i profeti. Gesù, appena battezzato viene proclamato Figlio di Dio da una voce nel cielo e viene inviato nel deserto ad affrontare la prima battaglia contro Satana, sconfitto il quale può iniziare la sua missione.

 

1: Il primo versetto funziona da titolo del testo di Marco. In proposito, si deve mettere in risalto la parola «evangelo», perché dice davvero molto sul significato di questo scritto, oltre ad aver dato il nome ad un nuovo genere letterario. Il termine greco «Euanghélion», infatti, non indica una qualsiasi buona notizia; nel linguaggio del primo secolo era una delle parole d’ordine dell’ideologia imperiale per annunciare la buona notizia che il Cesare regna stabilmente, garantendo pace e prosperità a tutto l’impero, proteggendolo vittoriosamente dai suoi nemici. Ora, però, questa parola non è riferita all’imperatore ma a Gesù Cristo, detto anche, almeno in alcuni manoscritti, Figlio di Dio, espressione che, oltre ad essere biblica, era anche uno dei titoli degli imperatori, il cui padre era stato ufficialmente divinizzato. Come ci fanno capire le citazioni bibliche dei due versetti successivi, Colui che solo può portare vera pace, vera salvezza, ha deciso di realizzare le sue promesse antiche nella persona di Gesù il Messia (in greco: il Cristo). Ecco quali sono il vero «impero» e il vero «imperatore».

 

2-3: Del Cristo, infatti, parlano le Scritture, e Marco attribuisce qui a Isaia quello che in realtà è una combinazione di citazioni da Mal 3,1; Es 23,20; Is 40,3. In questa maniera si crea nel lettore da un lato un senso di attesa di conoscere chi incarnerà queste promesse, dall’altra la coscienza di un compimento delle promesse antiche: Dio, infatti, è tornato a visitare il suo popolo nella persona di Giovanni il battezzatore. La sua parola risuona come un invito pressante rivolto al popolo a tornare al Signore.

 

4-8: È importante evidenziare la sequenza degli atti a cui gli ebrei sono invitati: il battesimo è un segno di conversione, finalizzato alla remissione dei peccati (nel testo abbiamo lasciato la traduzione – «vita senza senso» – intendendola come un’utile provocazione a riflettere sul senso della parola greca «hamartía», cioè «peccato»). Sul vero significato del battesimo di Giovanni, le tradizioni antiche non sono concordi: in Marco sembra segnare l’inizio di una nuova vita, di un nuovo rapporto con Dio. Nelle Antichità Giudaiche (18,117), invece, lo storico ebreo Giuseppe Flavio rappresenta il suo battesimo come il coronamento di una vita di virtù, una purificazione del corpo che segue quella dell’anima. È possibile, però, che lo storico ebreo abbia cercato di far rientrare l’attività di Giovanni in un orizzonte teologico più conforme con quello del tempio di Gerusalemme, la cui funzione altrimenti sarebbe stata messa profondamente in discussione da una pratica che sembrava voler sostituire il valore espiatorio dei sacrifici tradizionali.

Contrariamente all’evangelo imperiale, che giunge direttamente dalla caput mundi, l’evangelo del Dio d’Israele arriva invece dalla periferia del mondo, cioè da Nazareth, cittadina sconosciuta posta in Galilea, anch’essa a sua volta marginale, nella persona di uno sconosciuto confuso nella folla delle persone che si fanno battezzare da Giovanni.

 

9-11: Eppure quella persona riceve una rivelazione gloriosa (che gli altri non sembrano percepire) direttamente dal cielo squarciato (come sarà il velo del Tempio alla sua morte, vedi Mc 15,38), da dove lo Spirito scende su di lui come una colomba e una voce giunge per proclamarlo Figlio di Dio. Sembra quasi una rivelazione personale.

 

12-13: Altrettanto personale è il momento seguente (vv. 12-13), cioè il soggiorno di Gesù nel deserto per incontrare Satana, il «signore di questo mondo», che lo metterà alla prova (e ci riproverà ancora per interposta persona (cfr. Mc 8,11; 10,2; 12,15). Gesù rimane nel deserto 40 giorni come 40 anni vi era rimasto Israele in fuga dall’Egitto: è una sorta di purificazione, di preparazione prima di partire alla «conquista» del popolo d’Israele (come fecero gli ebrei con Giosuè alla fine del loro peregrinare). Nel deserto Gesù è assistito dagli angeli e vive con gli animali selvatici. Forse quest’ultimo particolare vuol richiamare Genesi 2, la vita nell’Eden prima del peccato, quando almeno secondo il Libro dei Giubilei (cfr. 3,28) tutti gli esseri viventi parlavano la medesima lingua. Lasciato il deserto dopo aver sconfitto Satana, Gesù potrà iniziare la sua missione. Infatti Da 1,14 la predicazione di Gesù può iniziare, con la chiamata dei primi discepoli e con le prime opere potenti.

 

14Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò in Galilea proclamando il vangelo da parte di Dio. 15e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è divenuto vicino; cambiate mentalità e credete sulla base del vangelo». 16Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 17Gesù disse loro: «Su, dietro di me, vi farò diventare pescatori di uomini!». 18E subito, lasciate le reti, lo seguirono. 19Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti, 20e subito li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i salariati, lo seguirono.

 

14-15: Esce di scena Giovanni, l’annunciatore della buona notizia e inizia ad agire il protagonista del racconto, Gesù. Lo scenario è quello della Galilea: punto di partenza simbolico, più che semplice coordinata geografica, come sarà evidente nella conclusione del racconto marciano (cfr. Mc 16,7). Le prime parole di Gesù, dal tenore programmatico, fanno riferimento al Regno di Dio che si avvicina, nel tempo del compimento; e alla risposta richiesta da parte degli uditori dell’evangelo, ovvero conversione della mentalità e fede. È un annuncio enigmatico che il seguito del racconto chiarirà. Tuttavia, i termini messi in campo dall’annuncio di Gesù possono essere almeno in parte decifrati già da ora, facendo riferimento al vocabolario delle Scritture d’Israele.

È nella tradizione profetica di quelle Scritture che troviamo sia la metafora del regno che l’attesa di un compimento dei tempi. I profeti annunciano un tempo in cui sarà Dio stesso a regnare, ristabilendo il progetto iniziale di un’umanità che intesse relazioni di giustizia, che ricerca lo shalom, ovvero il mondo giusto sognato da Dio, in principio. Ma Dio non agirà senza il coinvolgimento degli esseri umani. Costoro, sono chiamati a cambiare vita (alla lettera, cambiare mentalità: la conversione, infatti, parte dall’interno e si manifesta, poi, nelle scelte esterne), a ritrovare quella fiducia nel progetto di Dio che l’umanità ha perduto, mettendone in discussione la bontà, assecondando il sospetto del serpente che Dio sia un avversario, piuttosto che amico (cfr. Gen 3). Il vangelo di Dio, proclamato da Gesù, è tutto qui: nell’agire di Dio e nell’imperativo rivolto all’umanità perché lo accolga. Da qui in poi, Marco guiderà il lettore a comprendere più a fondo la posta in gioco racchiusa in questo annuncio.

 

16: Gesù è il protagonista del racconto ma non occupa da solo la scena. Dopo aver enunciato l’evangelo del Regno, ecco che chiama a sé altre persone. L’intero racconto di Marco s’interroga sull’effettiva possibilità di mettersi al seguito di Gesù, dando vita ad un’intrigante riflessione sulla figura del discepolo. Il gesto della chiamata ha un sapore inaugurale. E le parole che l’accompagnano, più che indicare il compito che questi chiamati dovranno svolgere (Marco lo indica più avanti, in 3,13ss), esprime simbolicamente il senso della vocazione.

Si parta dal diluvio di Gen 6,5ss, narrato come un’anticreazione, passando per la barriera delle acque del mar Rosso, che si pongono come ostacolo sulla via della liberazione (Es 14), fino al nuovo cielo e alla nuova terra di Ap 22,1, dove il male sconfitto definitivamente viene reso con l’immagine della scomparsa del mare: le acque indicano una condizione negativa, che mette fine alla vita, affogandola. Dalla scena del diluvio a quella del mar Rosso, la salvezza divina si annuncia come un uscire dalle acque di morte. Gesù evoca questa simbolica chiamando Simone ed Andrea a seguirlo. Questi pescatori del lago di Galilea – non a caso chiamato mare – d’ora in poi, saranno pescatori di uomini, collaborando a liberare l’umanità dal «mare» di guai in cui si trova.

 

17-20: La scena di vocazione riscrive analoghe scene bibliche, in cui il comando divino suona perentorio e viene immediatamente eseguito (dalla vocazione di Abramo in Gen 12,1ss in poi), senza che prendano forma possibili obiezioni. Quanto avvenuto con Simone e Andrea, avviene anche per Giacomo e Giovanni. L’ambientazione quotidiana, lavorativa, della scena esprime l’agire storico e feriale di Gesù; il fatto che sia Lui a chiamare – e non, com’era prassi nel giudaismo dell’epoca, i discepoli a chiedere il permesso di seguire il maestro – allude all’autorità profetica di Gesù e all’iniziativa divina nel tempo messianico. Lasciare gli attrezzi del lavoro e congedarsi dalla famiglia offre una prima illustrazione dell’invito alla conversione. Il mettersi al seguito di Gesù traduce la richiesta di vivere in base all’evangelo.

 

Dopo il commento dei due colleghi possiamo chiederci come possano risuonare nel cuore e nella mente degli adolescenti e dei giovani di oggi due espressioni come «cambiamento di mentalità» e «discepolato» a partire da questo brano evangelico in rapporto con la loro quotidianità di persone variamente in crescita. Ci si potrebbe anzitutto chiedere – e la domanda andrebbe rivolta, con semplicità ed immediatezza, a ragazze, ragazzi e giovani – quali siano gli aspetti più importanti delle loro «mentalità», ossia quali sono gli aspetti e i valori più importanti nelle loro vite, e quali sono le persone che essi ritengono dei punti di riferimento nella quotidianità e nell’esistenza in genere. A questa prima fase del confronto/dialogo – culturalmente importantissimo anche per qualsiasi educatore – segue utilmente un invito ad esprimere, a loro avviso, quali valori emergano, secondo loro, dai vv. 1-20 che vengono letti e commentati insieme. Una mentalità di apertura a Dio e agli altri esseri umani, badando all’essere e non all’avere, alla qualità delle relazioni e non alla fruizione esclusiva di beni, emerge chiaramente dal testo evangelico, tanto rispetto a Giovanni il Battezzatore che in riferimento al Nazareno. La schematicità della chiamata dei discepoli, nella sua essenzialità protocollare, invita chi è alla ricerca più o meno intensa di modelli a cui guardare o da evitare per impostare la propria vita a pensare che Gesù di Nazareth, per quanto ne parlano anzitutto i vangeli canonici, possa costituire, fuori da devozionismi e autoritarismi, un paradigma di solidarietà e di intensità esistenziali tale da riempire la vita di chiunque, senza obblighi soffocanti, ma con un esercizio responsabile e coinvolgente della propria libertà. E nel corso di tutto il vangelo secondo Marco sarà possibile comprendere davvero che cosa significhi cambiare mentalità e credere sulla base del Vangelo…

[1] 1,1. Queste parole mancano in alcuni importanti manoscritti greci.

14 Aprile 2018 | 14:31
Tempo di lettura: ca. 10 min.
chiesa (579), giovani (724)
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