Cristina Vonzun

Imparare ad abitare le fragilità, per non sprecare questa crisi

«Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla». Parole «salomoniche » di papa Francesco al termine della sua omelia di una settimana fa, alla Messa di Pentecoste senza fedeli nella Basilica di San Pietro. Cosa resterà di questa pandemia? La crisi dell’economia, la disoccupazione, le fragilità umane che sono emerse e che emergeranno in tanti, a detta almeno degli psicologi, le relazioni mediate dalle mascherine, le domande sulla nostra salute e sui comportamenti da tenere in futuro, le chiese mezze vuote? Certo, la cifra di fondo di questo elenco è quella della fragilità. La possiamo leggere in modo negativo, e le ragioni ci sono. Ma possiamo anche tentare di guardare l’altra faccia della medaglia. Perché è vero: questa crisi si può sprecare se ci limitiamo proprio e solo alle cose che non vanno o che non saranno più come erano prima. Diciamo che la fragilità allora ci viene in aiuto. In primo luogo, la pandemia ci ha spogliati della pretesa di onnipotenza, ci ha riportati tutti, con umiltà, a guardare in faccia noi stessi e i nostri simili. La stessa mascherina che ci ricopre il volto al supermercato, alle riunioni, in chiesa è lì a confermare non solo la scoperta della nostra natura precaria ma anche l’evidenza di un nuovo, dal sapore instabile. La cultura in cui siamo sempre stati immersi ci ha insegnato ad esorcizzare questa fragilità, a partire dall’individualismo e dalla competitività esasperata che negano la nostra condizione vulnerabile. Tutti siamo immersi in un mondo che insegna a nascondere le debolezze e le limitazioni e ad esaltare gli atteggiamenti di forza. L’incontro con la fragilità, c’è sempre stato, ma in una società di «forti» si è trasformato in qualcosa di tollerato, certo, accolto forse, ma tendenzialmente «marginale» e non centrale. Ora, la pandemia evidenzia che la fragilità umana è dentro le relazioni, la salute, il lavoro, il futuro: se l’uomo non si riduce alle sue fragilità, tuttavia il suo essere ne è pienamente costituito. In primo luogo, quindi, nello sperimentare la nostra «fragilità» conseguiamo un vero incontro con qualcosa che riscopriamo al centro del nostro essere e al contempo dell’altro, simile a me, impastato come me di questa vulnerabilità. La conseguenza positiva potrebbe proprio essere quella di riscoprire una cultura di fraternità che risponde alla «cultura dello scarto»; una cultura solidale, di unione, di riflessione condivisa che si estenda oltre i giorni dell’emergenza. In secondo luogo, la fragilità, come ogni limite, è anche desiderio di una felicità possibile, che può suscitare la speranza di un domani migliore e con essa le energie per conseguirlo. Quindi la fragilità di tutti noi, se ben giocata su queste due coordinate, della fraternità e della speranza che si mette in moto, può veramente trasformarsi in un’occasione non sprecata. E il cristianesimo? San Paolo rammenta la fragilità di Colui «che di condizione divina non considerò questa uguaglianza con Dio come qualche cosa che doveva custodire gelosamente… ma spogliò sè stesso», dicendoci semplicemente che per incontrare l’uomo, la condizione scelta da Cristo, è stata proprio questa fragilità. La sfida quindi, in questo tempo nuovo, potrebbe davvero essere quella di non sprecare la crisi, cominciando dall’abitare, come cristiani e come comunità cattolica, la nostra vulnerabilità personale e quelle sociali, contribuendo con altri ad una cultura di fraternità e speranza, memori anche del detto paolino: «Quando sono debole, è allora che sono forte».

Cristina Vonzun

6 Giugno 2020 | 07:06
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