Emanuele di Marco

Dall’amen all’I like

 

Di Don Emanuele Di Marco

«Ognuno ha i suoi gusti». «L’importante è che piaccia a lui». «Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace»… la carrellata è lunghissima. Potremmo sbizzarrirci nel raccontare modi di dire ed aforismi che inneggiano all’individualismo ed alla capacità di descrivere la bontà e la bellezza di qualcosa soffermandosi sulle emozioni ed i sentimenti che questa produce. È nella nostra indole di cittadini postmoderni: ciascuno di noi incarna l’homo eligens, l’uomo che sceglie. Siamo abituati a decidere tra migliaia di alternative in un mondo che critichiamo spesso: il consumismo, in fondo, ci piace. E ci troviamo molto bene: esso risponde ai vuoti della nostra anima, ai desideri più profondi del cuore.  Pensiamo che la nostra vita sia piena perché ci possiamo concedere la scelta di fare «ciò che ci piace». Anche le nostre relazioni umane e persino religiose sono contraddistinte non tanto da una verità oggettiva, ma da ciò che piace.

Perché non parliamo del senso di frustrazione che proviamo dal momento nel quale possiamo scegliere lo shampoo solamente tra tre diversi a disposizione? Oppure quando, aprendo l’armadio, non abbiamo almeno una decina di giacche invernali diverse? O ancora quando la nostra pay-TV ci offre solamente una ventina di canali? Tutto ci viene incontro in una molteplicità che ci distrae. Sono numerosissime strade che ci si presentano dinanzi. Nulla è fatto per durare. Tutto per essere consumato. E solamente se mi piace.

La società dell’I like è molto distante da quella dell’amen. In ebraico amen (א»ן) indica: «certamente, così sia, in verità». È l’espressione che indica un’oggettività, un fatto verificabile, in un certo senso. E, sebbene abbia vinto un trofeo a Sanremo una canzone intitolata «amen», non possiamo dire di vivere in un contesto inneggiante alla verità. Nella società dell’amen si lavora per un bene condiviso, che va costruito, certo: ma è chiaro l’orizzonte verso il quale si tende. C’è un progetto da attuare e verso il quale vale la pena impegnarsi. C’è una verità che come una calamita magnetizza ed attrae a sé.

La società dell’I like non riesce a costruire molto. Gli sforzi ci sono, certo. Ma vengono spenti dal sensazionalismo che limita il progetto condiviso. Nella società dell’I like devi produrre molto di più rispetto a quello che si consuma, perché altrimenti non ci sarà vera scelta. E dovrai insegnare non ciò che è bene sapere, ma solamente ciò che piace, perché il docente deve piacere, non insegnare. E i genitori non saranno quelli che ti educheranno al tuo bene, alla fatica e al sacrificio: piuttosto, ti porteranno a fare cose che ti piacciono. Per non parlare di ciò che riguarda la morte ed una eventuale vita dopo: avrà proseliti la religione che racconterà ciò che piace, che tutti vivranno in pace oltre la propria vita. O che, se ti piace, sarai reincarnato in una cipolla rossa o in un armadillo. Nella società dell’I like, se non ti piace il bambino che hai in grembo lo puoi eliminare e riprovare. Prima o poi ti andrà bene… Nella società dell’I like il virtuale ha un ruolo incredibile: posso crearmi un impero, un mondo, una comunità come piace a me. Posso immaginarmi Imperatore di Roma, ballerina improvvisata o l’incredibile Hulk. Piace di più avere i poteri da super eroe. Ma la realtà non è così…

Passi tutta la vita a sforzarti per piacere agli altri. E quando non ti senti più apprezzato, vale la pena andarsene.

Un mondo così non può andare avanti! Mi piace pensare che a qualcuno questo non piaccia. Mi piace pensare che in fondo c’è qualcosa di vero oltre ciò che mi fa sentire bene. Mi piace pensare che posso anche non piacere. Certo: è più difficile vivere nella società della verità, laddove devo impegnarmi oltre ai miei piaceri, alle mie sensazioni, ai miei desideri. Mi piace sapere che non mi piace dover fare solo ciò che mi piace!

 

18 Febbraio 2016 | 07:00
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