Ernesto Borghi

Come essere santi senza volerlo essere? Don Tonino Bello per la vita di tutti

Chi è stato il vescovo Antonio Bello, conosciuto più comunemente come don Tonino Bello? Al di là di qualsiasi mitizzazione, per chi come me non l’ha conosciuto personalmente e cerca di essere cristiano, si tratta di un uomo che ha dato più che il sospetto che il Vangelo si possa realizzare anche nella dimensione terrena della vita. Una persona che è credibile perché vive i valori che professa e non pensa che essi possano essere condivisi per costrizione o secondo complessi di superiorità. Quella santità di cui papa Francesco parla nell’esortazione apostolica «Gaudete et exultate», la gioiosa quotidianità evangelica, è stata sensibilmente praticata dal vescovo di Molfetta, scomparso dolorosamente venticinque anni fa, un uomo che non ha certamente bisogno di processi canonici per essere considerato, secondo i valori espressi, per esempio, in Matteo 5, un punto di riferimento per l’esistenza di tante donne e tanti uomini. Quali? Coloro che – quale che sia la loro ispirazione culturale e religiosa – sanno quanto difficile e quanto entusiasmante sia provare a vivere d’amore effettivo insieme agli altri e per gli altri, dal Sud al Nord dell’Italia, dell’Europa e del mondo, in particolare in questa nostra epoca in cui l’indifferenza per le difficoltà altrui e la trascuratezza verso quanto fa cultura umanizzante sembrano avere un’enorme importanza.
Tra i tanti scritti che don Tonino propose nel corso di una vita terrena davvero troppo breve, credo sia importante meditare ancora una volta le parole che seguono (cfr., la raccolta di lettere Alla finestra la speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo/MI 1994, pp. 48-49), le quali credo non abbiano bisogno di alcun commento verbale tali ne sono l’eloquenza e la chiarezza:
«Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agli incroci, ce ne sono ogni tanto delle altre, di piccole dimensioni, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a rallentare la corsa per imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota?
Ve ne indico tre. Ma bisogna fare attenzione, perché si vedono appena.
La freccia dell’accoglienza. È una deviazione difficile, che richiede abilità di manovra, ma che porta diritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono. Non come un rivale. Un pretenzioso che vuole scavalcarmi. Un possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere il fratello con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Sì, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che è iscritto all’anagrafe del mio quartiere o che abita di fronte a casa mia. Coraggio! Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, noti degli ectoplasmi. Del prossimo in carne e ossa con cui confrontarsi, non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.
La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto.
È sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. E su questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo e a misurare la nostra fedeltà al mistero della croce.
La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe qualcosa. Non il cristallo di una virtù che, al limite, con una confessione si può anche ricomporre. Ma il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture».

Don Tonino Bello.
19 Aprile 2018 | 09:23
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