Ernesto Borghi

Da Bruxelles al mondo... per una logica di vita a favore di tutti

di Ernesto Borghi

Suscitare terrore e causare la morte sono due azioni degne di esseri umani? A vedere quello che sta succedendo in Europa e nel mondo in questi mesi a questa domanda si può che rispondere, più di sempre, in un solo modo: no. La prevaricazione sugli altri può essere la reazione a violenze subite, secondo la logica del male per il male. Non è evangelico, non è giustificabile, ma, nella storia degli individui e dei gruppi sociali, talora è stato ed è tragicamente comprensibile. Ma bisogna andare al di là di tutto questo. Si deve fare di tutto per rompere coraggiosamente la spirale del male operando il bene, respingendo atti di malvagità e discriminazioni. D’altra parte

– a chi vede spezzata la vita innocente di persone care, si può parlare non astrattamente di perdono?

– A chi è vissuto costantemente in ambienti dove la legge del più violento e del più ignorante è quella che conta – dal Sud al Nord del mondo, dalle periferie urbane ai villaggi più sperduti – si può efficacemente dire che la strada vera della vita è un’altra?

– Come può comprendere la necessità di una crescita comune materiale e morale chi è cresciuto nella prospettiva che la propria parte, sociale, religiosa o etnica, deve potersi affermare, nonostante tutto e tutti, senza riconoscere il diritto di chi è diverso da sé a sviluppare la propria identità con analoghi diritti?

Sono tutti interrogativi a cui è difficile rispondere in modo non retorico, se ci si limita alle parole. Infatti appare chiaro ad ogni essere umano di buona volontà, quale che sia la sua ispirazione culturale, in tutti questi ambiti dove sia la morte e dove sia la vita. Occorre fare qualsiasi cosa per evitare che vi siano, in futuro, tanti altri morti dopo i milioni di donne e uomini annientati, negli ultimi decenni, da meccanismi socio-economici perversi, congegnati in vista dell’arricchimento essenzialmente materiale di minoranze di privilegiati.

Anche noi, cittadine e cittadini del Nord del mondo, possiamo essere stati e rimanere complici di questa logica terribile. Per evitare tali compromissioni dobbiamo impegnarci seriamente perché queste testimonianze eloquenti del predominio del dolore della morte sulla gioia della vita non abbiano più repliche.

Come fare? In occasione del Natale 1991 il prete campano Giuseppe Diana, fiero avversario della camorra e delle sue logiche disumanizzanti, insieme a vari altri suoi confratelli fece leggere, nelle parrocchie della sua zona martoriata, una lettera intitolata Per amore del mio popolo non tacerò, rivolta anzitutto ai frequentatori delle Messe domenicali. Tra l’altro, vi era scritto: «limpegno profetico di denuncia dei cristiani non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti. Il profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (cfr. Ezechiele 3,16-18); il profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (cfr. Isaia 43); Il profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (cfr. Genesi 8,18-23); Il profeta indica come prioritaria la via della giustizia (cfr. Geremia 22 – Isaia 5)».

Un cristiano che non sia profetico in questo modo, che tipo di credente è? Forse un perbenista o un borghese che reputa di essere cristiano, ma non un credente nel Dio di Gesù Cristo… Comunque dall’impegno contro le mafie morali e materiali di ogni genere a quello contro qualsiasi fondamentalismo religioso o culturale vi è un comune denominatore: il rifiuto radicale della violenza come forma per affermare se stessi, le proprie persone e i propri contesti sociali di riferimento.

Il grande teologo peruviano Gustavo Gutierrez ha scritto: «Il discorso sulla fede è un sapere con gusto; un assaporare spiritualmente la parola del Signore che alimenta la nostra vita ed è la fonte della nostra gioia… Il metodo (la strada da percorrere) del discorso su Dio è la nostra spiritualità… Essere inseriti nella vita del nostro popolo, condividerne sofferenze e gioie, interessi e lotte, come pure la sua fede e la sua speranza vissute in comunità cristiana, non è una formalità necessaria per fare teologia, ma una condizione per essere cristiani. Ed è questo che alimenta alla radice una riflessione che vuole dar conto del Dio della vita in un contesto di morte ingiusta e prematura»[1].

La ricerca di quanto di umanizzante è contenuto nella Bibbia, nel Corano e nei testi di riferimento delle grandi esperienze, religiose e non, della cultura universale può essere la base di un’attività formativa non astrattamente accademica, ma concretamente esistenziale che può raggiungere bambini, ragazzi, giovani e adulti ad ogni latitudine. Così, mentre si lavora per assicurare alla giustizia i responsabili degli atroci attentati anche degli ultimi giorni e per creare nelle carceri condizioni davvero riabilitative a livello umano, si deve operare perché la cultura del nostro tempo abbia il profumo sempre più penetrante di una vita stimolante e creativa, non il puzzo acre di una morte deprimente e distruttiva. Nella settimana che conduce a Pasqua come anche in ogni altra settimana dell’anno…

 

[1] G. Gutierrez, Guardare lontano, in Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 19922, p. 30. «Quando Francesco d’Assisi giunse coi suoi quattro minori al cospetto di Innocenzo III, all’apice del potere spirituale e temporale (non so se morale), il pontefice gli chiese: «Tu vorresti fondare un ordine religioso. Ce le hai le regole?». E Francesco rispose: «Santità, ce l’abbiamo sì: è il Vangelo». È quella la legge a cui io rispondo» (A. Gallo, Così in terra, come in cielo, Mondadori, Milano 2011, p. 118).

23 Marzo 2016 | 15:56
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