Stella N'Djoku

«A tavola con Dio e con gli uomini: il cibo tra antropologia e religione». Intervista a Adriano Fabris

di Stella N’Djoku

Il cibo è per la vita dell’uomo tanto fondamentale, non solo come bisogno del corpo, da essere spesso legato a simboli e prescrizioni in campo alimentare, soprattutto se si tratta dell’ambito religioso. Per indagare il rapporto dialettico «uomo-cibo» e interrogarsi su altri aspetti riguardanti la tematica, abbiamo posto alcune domande a Adriano Fabris, Adriano Fabris, professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Pisa e professore alla Facoltà di teologia di Lugano.
Professor Fabris, al Convegno si è molto parlato di canoni di purezza, rapporto Dio-uomo mediato spesso e volentieri dal cibo, abbiamo sentito racconti di storie legate a queste tradizioni… Lei cosa pensa riguardo ciò? Che valore ha, per Lei, il cibo, e che valore gli dà? Secondo Lei, oggi, esiste ancora questo rapporto uomo-Dio mediato dal cibo? Se sì, in quali forme lo possiamo riscontrare?
Il cibo è qualcosa che, per l’essere umano, ha un valore non solo materiale, ma anche simbolico. Serve certamente per nutrirsi, ma è anche qualcosa che fa cultura e che permette d’identificare una cultura. Per questo il cibo è coinvolto nel rapporto fra uomo e Dio. Ciò avviene in tutte le culture. Ciò si verifica anche oggi: non solo nelle forme istituite che sono proprie delle religioni, ma in tutte quelle forme in cui la convivialità è segno ed esperienza di qualcosa che va oltre il livello puramente umano.
Si parla di «nutrimento dell’anima», «cibo spirituale», … Ci può spiegare, secondo Lei, che legame hanno questi «cibi» con la sopravvivenza?
Non di solo pane vive l’uomo. In effetti non è possibile solamente nutrirsi di cose materiali, ma abbiamo bisogno anche di nutrimenti che soddisfino il nostro bisogno di senso. Ciò accade perché l’essere umano è sempre di più di quello che è, è presente più della sua dimensione puramente corporea.
E del rapporto col cibo in forma di «desiderio» e non di «necessità», cosa dice? Per quale motivo accade questo movimento, secondo lei?
C’è una distinzione netta fra bisogno e desiderio. Il bisogno si può soddisfare, il desiderio no. Il desiderio è infinito, è fame e sete di assoluto. Il problema del nostro tempo è dato dal fatto che spesso questa distinzione è dimenticata. La comunicazione pubblicitaria si basa ad esempio sullo scambio di bisogno e desiderio: sul fatto che crediamo di soddisfare i nostri desideri comprando semplicemente qualcosa, cioè soddisfano un bisogno.
In che senso gusto e sapori possono influenzare il nostro rapporto col mondo e col divino?
Il sapore è collegato al sapere. Una cosa, diciamo, «sa» di buono o di cattivo. Noi dobbiamo imparare a riconoscere, a sapere, appunto, se qualcosa è buono o cattivo. Ciò non dipende dal nostro gusto. Una cosa che sa di buono non sempre «è» buona. Sapere, dunque, è andare al di là di un semplice gustare: è fare un discorso oggettivo, condiviso, che va al di là del gusto personale.
«Siamo ciò che mangiamo» o «mangiamo ciò che siamo»? «Mangiamo per vivere» o «viviamo per mangiare»? Questi detti, secondo lei, come possiamo inserirli nel nostro discorso?
Noi non viviamo solo per mangiare, ma mangiamo, certamente, per vivere. Il che vuol dire che la vita è al di là, nelle sue possibilità, rispetto al semplice procacciarci del cibo. In questo al di là si apre lo spazio, anche nel caso del cibo, per una considerazione di esso in chiave culturale e religiosa.

 

29 Ottobre 2015 | 07:00
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