Commento

Lo sfruttamento lavorativo: le cause

Dossier Caritas n.4 – Maggio 2015

Lo sfruttamento:radici profonde e lontane
Lo sfruttamento lavorativo si distingue legalmente il consensuale e non-consensuale, dove per il primo si intende l’accettazione di condizioni di sfruttamento «per mancanza di altre vie percorribili», in cui i lavoratori accettano di essere impiegati con salari bassissimi, condizioni sanitarie pessime e rischi per la salute e la sopravvivenza.
La causa dello sfruttamento consensuale è il monopolio del mercato, in cui il datore di lavoro gode di un mercato rigido grazie al quale può esercitare un potere di contrattazione elevatissimo e direttamente con i lavoratori. I lavoratori sono perciò costretti ad accettare condizioni di sfruttamento per:
– mancanza di alternative;
– creazione di veri e propri fronti da parte dei datori di lavoro;
– immobilità geografica degli impiegati;
– stigma e marginalità sociale;
– mancanza di formazione o competenze alternative.
Lo sfruttamento non-consensuale (prostituzione forzata, schiavitù, lavoro minorile, ecc.) è invece causato dalla coercizione, dalla violenza e dalla frode.
La distinzione è però puramente legale e serve al campo del diritto per distinguere eventuali responsabilità dei datori di lavoro mentre «la teoria economica di per sé parla solo di sfruttamento». È infatti praticamente impossibile non ravvedere anche nello sfruttamento cosiddetto consenziente una componente di sopruso e di violenza che impone l’accettazione di condizioni di sfruttamento per la mancanza di alternative.
In generale la causa che soggiace allo sfruttamento lavorativo è legata alla povertà ma non solo e ne è prova il fatto che lo sfruttamento della forza lavoro esiste anche nei Paesi non poveri e ai danni di persone non povere.
Di certo nella maggior parte dei casi è la povertà economica che spinge i soggetti ad accettare o a subire condizioni di lavoro non umane. Ma essa è rinforzata e mantenuta da una povertà:
– di alternative,
– di competenze umane e personali,
– di sistemi di sostegno a livello politico e sindacale,
– del sistema di welfare,
– di istruzione.
A ciò si aggiungono macro-dinamiche economiche che, soprattutto nel quadro della globalizzazione, creano spinte dai Paesi ricchi verso i Paesi poveri (non necessariamente solo nell’asse Nord-Sud del mondo) che creano condizioni di lavoro disumane, domanda di prodotti a bassissimo costo e negazione totale dei minimi diritti, garantiti invece (almeno in linea di principio…) nei Paesi ricchi del Nord del mondo.

Le responsabilità dell’Europa
Lo sfruttamento del lavoro è una questione complessa, che deve essere affrontata da molti punti di vista. Questa complessità non deve tuttavia nascondere le responsabilità che toccano direttamente il mondo ricco e sviluppato, e in particolare l’Europa: le iniziative economiche (sia quelle legali come la produzione tessile che quelle illegali come il turismo sessuale o il commercio di droga) si sviluppano se c’è un mercato, e secondo modalità che si determinano in relazione alle possibilità e i quadri regolatori esistenti. Esistono delle connessioni molto forti che legano all’Europa l’esportazione di molti prodotti, come ad esempio quelli del settore tessile, per non parlare del contributo dei cittadini europei al degradante circuito del turismo sessuale.
Il primo elemento importante è dunque quello relativo all’informazione, allo scopo di suscitare una consapevolezza diffusa su quanto i fenomeni di sfruttamento che osserviamo e condanniamo (spesso solo episodicamente) affondino spesso le proprie radici nelle società ricche del Nord del mondo e, in ultima analisi, nei comportamenti di ognuno di noi e nella nostra responsabilità, diretta e indiretta.
Ugualmente importante è l’attenzione al contesto normativo di questi fenomeni. L’attenzione alle politiche commerciali europee, che in passato hanno avuto impatti importanti sia sui cittadini europei che sui cittadini dei Paesi terzi. Nel dibattito, più recente, va notata la crescente enfasi sul ruolo del settore privato, che certamente è un motore centrale dello sviluppo economico. L’esperienza insegna però che l’idea di sviluppo deve essere compresa ben oltre i termini puramente economici. È fondamentale poi che gli operatori del settore privato trovino un contesto normativo che permetta loro di sviluppare la loro attività allo stesso tempo però proteggendo le fasce sociali più vulnerabili e favorendo il perseguimento del bene comune.
Il dibattito, anche europeo, su questo tema indica finora un approccio orientato alla responsabilizzazione e all’autoregolazione del settore privato, spesso senza neanche distinguere appropriatamente tra piccoli operatori economici locali e grosse compagnie transnazionali che si pongono con ben diverso peso negoziale nei processi di cambiamento economico, ma anche sociale e politico. Si tratta di un dibattito importante, troppo spesso trattato con superficiale entusiasmo, e dove le responsabilità delle istituzioni europee possono essere particolarmente importanti.

I dati
Come si è evidenziato precedentemente, il tema dei dati necessari per valutare le dimensioni di sfruttamento del lavoro è ancora aperto. Uno degli elementi di maggiore interesse è quello dell’esplorazione dei nessi tra condizioni di lavoro e povertà. Si tratta di un tema complesso che va visto soprattutto nei suoi elementi di evoluzione e cambiamento, al fine di intercettare le tendenze in atto, rispondere efficacemente alle nuove povertà e identificare gli strumenti necessari a prevenire il peggioramento delle condizioni dì tante persone. Tra i vari casi studio dei Paesi menzionati in questo documento, si è scelto di fornire qualche elemento aggiuntivo su uno di essi in particolare, che presenta alcune caratteristiche di particolare interesse.
Il Bangladesh ha conseguito notevoli successi nella riduzione della povertà a partire dagli anni Novanta. La veloce crescita del PIL e i processi di urbanizzazione (insieme all’aumento delle rimesse degli emigranti e a più ampi fenomeni di trasformazione sociale) hanno favorito una tendenza per cui tra il 2005 e il 2010 i tassi di riduzione della povertà sono sempre stati più elevati del tasso di aumento demografico. Le analisi della povertà sono tuttavia rimaste spesso concentrate sull’esame della povertà rurale, mentre la povertà urbana, cui sono profondamente legate tutte le trasformazioni nel mondo del lavoro, è rimasta in molti casi ai margini dell’attenzione.
Gli elementi positivi della riduzione della povertà nel Paese offrono infatti prospettive diverse quando si osservano più da vicino le diverse situazioni, soprattutto se si vuole che questa tendenza sia segno di benefici reali e diffusi. In particolare, la povertà in ambiente urbano si presenta spesso con caratteristiche diverse dalla povertà rurale. Caritas Bangladesh, attraverso la struttura specializzata del Caritas Development Institute, ha promosso quindi una ricerca si stematica circa le condizioni all’interno degli slums di Dhaka e Chittacong, le due maggiori città del Paese.
Lo studio rivela che le persone che vivono degli slums sono per lo più migranti che provengono dalle zone rurali di diverse parti del Paese: l’89,3% degli intervistati ha dichiarato di non essere nato in città, ma il 54,4% abita comunque in città da più di 10 anni. Alla radice della loro scelta di migrare ci sono varie ragioni, di cui la principale è la ricerca di lavoro. Anche gli eventi naturali (come tifoni o inondazioni) rappresentano un importante fattore che spinge molti a spostarsi dalle loro zone di origine, così come il desiderio di sfuggire a tensioni e conflitti di varia origine.
La maggior parte dei migranti (71,2%) risiedono ormai in città permanentemente, ma vi sono anche alcuni migranti stagionali e temporanei. Gli abitanti degli slums sono impegnati in una varietà di occupazioni.
Il lavoro nel settore tessile rappresenta la proporzione più alta, assieme al lavoro occasionale agricolo e non agricolo. Sono diffuse anche occupazioni illegali o socialmente inaccettabili, come la prostituzione e il commercio della droga.
Da un punto di vista del reddito, la situazione degli abitanti degli slums garantisce l’accesso a qualche forma di partecipazione nella vasta e dinamica economia della città: secondo la loro stessa percezione, la maggior parte di essi non scivola sotto la soglia della sussistenza. Tuttavia per molti aspetti le loro condizioni di vita sono assai peggiori di quelle degli abitanti delle zone rurali: ad esempio sotto il profilo della qualità delle abitazioni, la disponibilità di acqua e opere di sanitarizzazione, la presenza di servizi.
Dal punto di vista dell’integrazione sociale ricorre l’espressione di un sentimento di difficoltà da parte dei migranti che hanno dovuto intraprendere occupazioni che sono percepite come degradanti, oppure che lamentano difficoltà nell’integrazione nelle nuove aree di residenza.

Storie e testimonianze
India – Pankaj, cento metri di libertà
Pankaj ha tredici anni, dieci dei quali passati in una casa di fango e sterco di vacca. Una casa pulita, fresca d’estate e calda d’inverno. Con lui abitano i genitori e i quattro fratelli. Manoj, il più piccolo, va ancora a scuola, ma è l’unico. Gli altri lavorano nei campi con i papà: sveglia alle quattro di mattina, colazione con il chapati e il curry di cavoli, mungitura dell’unica vacca e poi nei campi. Ma dopo pranzo c’è il riposo, alcune ore sul charpoi, il letto di corde intrecciate, fuori di casa. Raju, il fratello di mezzo, va anche alla scuola pomeridiana del villaggio, dove una suora e alcuni volontari insegnano a leggere e a scrivere.
Pankaj, invece, dopo la sveglia sale su uno degli autobus che portano in città, a Varanasl. Quando può non paga il biglietto. Se lo beccano si lancia fuori dal mezzo in corsa, o viene lanciato. Se invece ci sono le poche rupie che servono, allora compra il biglietto e si siede anche. Quei giorni gli sembra di essere un re, senza la paura del controllo, senza la tensione dei muscoli magri pronti al salto e con la fierezza di chi ha diritto di sedersi schiacciato tra gli altri.
Dalla fermata del bus alla casa del padrone sono poche centinaia di metri, ma è in quel breve tratto che si assapora la libertà di muoversi tra gli altri. Certo, tra gli altri straccioni, ma senza il papà che controlla e bastona, senza la mamma che dice che cosa fare e non fare, senza il fratello più piccolo da custodire. E poi sì arriva al lavoro: una casa di tre stanze in cui si preparano bastoncini di incenso.
Ogni mattina venti operai, di cui quattro donne, due uomini e quattordici bambini, si accovacciano sulle stuoie e modellano pasta di sandalo intorno a bastoncini di paglia. La casa ha le pareti scure a causa dei bruciare continuo dì un fuoco per la preparazione della pasta. Il fumo annerisce i polmoni almeno quanto le pareti e il profumo dì essenze poco può contro l’odore di urina che viene dalla strada: quaggiù, nelle viuzze di Benares, passano ininterrottamente da mattina a sera bufale, uomini, donne, barboni, bambini, scìmmie e capre, tutti con il loro carico di vita e di escrementi. Pankaj arrotola con maestria, dopo due anni di pratica e scudisciate, i bastoncini, li passa a Sunita che ne conta mazzetti di venti e li impacchetta in quella carta arancione che solo a vederla fa venire in mente la festa.
La paga dipende dalla produzione, ed è fissata in 30 rupie indiane ogni cento bastoncini, per una media di circa 3 euro e mezzo al giorno. Già a 13 anni Pankaj soffre di tosse costante e di mal di schiena, mentre le donne anziane che lavorano con lui assumono costantemente antidolorifici per potersi alzare e camminare dopo otto o dieci ore di lavoro accovacciate sul pavimento di pietra. E tornare a casa nella loro condizione, ormai permanente, di vedove inutili.
Se si sta a casa si perde la paga del giorno e se l’assenza dura più di cinque giorni consecutivi si perde del tutto il lavoro, li padrone, sahib, come si fa chiamare Chandrakant, il corpulento omaccione che gestisce la casa, passa tre o quattro volte al giorno per controllare che tutto funzioni e distribuire le scudisciate a suon di bambù.
Ma quando torna a casa, la sera, Pankaj, vede nella smorfia della madre la sofferenza per il figlio stanco ed emaciato mischiarsi alla soddisfazione di poter mettere il cibo in tavola e allora quasi quasi è come se passassero la tosse, il mal di ossa e lo schifo perla puzza di urina.
Quando può Pankaj porta con sé un bastoncino malriuscito o uno scarto di lavorazione e lo accende davanti alla statua di Ganesh che, pacifico e bonario, veglia sulla casa di fango.
Solo Ganesh, insieme alla madre, sa assaporare l’aroma dell’incenso per quello che è: essenza di odori lontani, sudore, dolori, giochi mancati, lettere mai scritte e mal lette, speranze piccole piccole e la libertà di cento metri di strada.

Bangladesh – Lavorare in città tra sfruttamento e riscatto
Una discussione in un focus group condotto da Caritas Bangladesh ha permesso di mettere in evidenza diversi aspetti delle condizioni di vita di operai del settore tessile. La maggior parte di coloro che svolgono questo mestiere sono immigrati a Dhaka da altri distretti, come Mymansing, Barisal, Gaibandha, Rangpur, Meherpur, Comilla, Joypurhat, Dinajpur, Lalmo-nirhat e Jassore. Molte di queste persone sono arrivate a Dhaka circa 8 anni fa, spinti dalla difficoltà di trovare un lavoro e dai molti problemi economici che impedivano loro di fare fronte alle diverse esigenze della famiglia.
Quasi tutti hanno un tenore di vita molto basso; vivono in una casa semipermanente e per lo più non di spongono di terra da coltivare. I loro guadagni sono appena sufficienti per vivere con difficoltà, in media 7.500 taka al mese (circa 89 euro). Sono costretti a lavorare contro la loro volontà anche il venerdì (giorno di riposo settimanale), e in tutto l’anno non hanno diritto a più di 13 giorni di riposo (comprese le festività religiose). Nonostante tutto, la migrazione ha portato un miglioramento da un punto di vista economico, ma ha peggiorato la situazione sociale, sia per loro che per le rispettive famiglie: ad esempio, nessuno vuole sposare un lavoratore del settore tessile. Nessun membro delle loro famiglie è implicato in attività come la prostituzione o l’uso di droghe.
A parte il salario molto basso, insufficiente a mantenere fa famiglia, le condizioni sono estremamente faticose, con giornate di lavoro che si estendono per 12-14 ore. Se si è vittima di qualche malattia comune (febbre, mal di testa, disturbi intestinali) non si ha diritto ad una giornata di riposo. Il rapporto con il padrone non è buono: oltre al lavoro in più che viene preteso ogni giorno (come anche nei fine settimana e durante le feste), il salario viene spesso pagato in ritardo con forti penalizzazioni anche per un solo minuto di ritardo. Il trattamento prevede anche abusi psicologici e rudezze di ogni tipo.
Le condizioni di lavoro sono rischiose, nessuna misura di sicurezza viene presa. I casi di molestie e abusi sessuali sono all’ordine del giorno. Anche trovare un posto per vivere non è affatto facile, poiché quasi nessuno vuole affittare a dei single, uomini o donne che siano, e gli affitti sono estremamente elevati. La sicurezza, a parte i casi dì molestie e abusi sessuali, è abbastanza buona in tutta la zona. Ma la vita è resa difficile, tra le altre cose, anche dalle frequenti interruzioni di corrente, che danneggiano il lavoro e provocano malori per la temperatura, che subito aumenta moltissimo all’interno dei laboratori.
Diverse cose potrebbero essere fatte per migliorare la vita dei lavoratori del settore tessile: affitti meno cari, sicurezza sociale, disponibilità di cure mediche, opportunità di formazione, scuole e asili per i figli, possibilità di piccoli prestiti senza interesse… Sarebbe importante avere leggi appropriate e un buon monitoraggio della loro implementazione. Il Governo dovrebbe impegnarsi, e con il governo anche le ONG dovrebbero provare ad aiutare questi lavoratori migranti.

Thailandia: stigma e sofferenza, per il piacere altrui
Ranong è una città di frontiera, situata non lontano dai paradisi turistici della Thailandia. Ed è il luogo in cui molti dei migranti birmani trovano approdo. Un approdo, per le donne, spesso nel florido mercato della prostituzione locale.
Negli stums ài Ranong, incontriamo Aung, 29 anni. È di origine birmana, ma vive da molti anni a Ranong. Visitiamo la sua casa durante la mattinata, attraversando uno stresso viottolo degli slums vicino al porto. Entriamo in casa silenziose, mentre Toby- l’animatrice del Centro Marista MMR – annuncia la nostra visita. Non ci accorgiamo subito della presenza di Aung; solo dopo un po’ci rendiamo conto che quel fagottino in mezzo alla stanza è la nostra paziente.
Aung era bella, bellissima. Guardiamo le foto appese alle pareti e notiamo il suo sorriso bianco come il riso e le guance piene di vita. Purtroppo, queste immagini sono solo un lontano ricordo di quella che era la vita delia nostra paziente. Ora Aung si trova allo stato terminale della sua malattia, emaciata, magrissima e stanca. Ormai non riesce più a svolgere alcuna attività quotidiana, e le poche forze che le rimangono non le permettono neanche di alzarsi dal letto. Anche comunicare risulta difficile, con una malattia che l’ha resa quasi sorda.
Aung non ha un’idea chiara di come il virus dell’HIV l’abbia contagiata. Noi lo possiamo solo immaginare, quandoToby ci informa che la ragazza lavorava come prostituta. Aung sa solo che, una volta scoperto di essere malata di AIDS, il suo compagno è fuggito lasciandola da sola. La stessa cosa hanno fatto i suoi fratelli e sorelle; tra loro, solo uno sembra esserle rimasto vicino e ogni tanto la va a trovare. Accanto a lei è rimasta la madre che, lentamente, si avvicina a noi e apre il suo volto in un sorriso ospitale.
Questa giovane donna è da molti anni paziente del MMR e, date le sue gravi condizioni di salute, riceve visite quotidiane. I nostri colleghi le forniscono cibo e acqua, tenendo costantemente sotto controllo il suo stato di salute. Non c’è ormai molto da fare a livello strettamente medico, ma essendo un paziente terminale, l’Health Team le sta vicina per aiutarla in questo momento finale della sua vita.
Aung, malgrado tutto, non ha perso il suo sorriso. Ci mostra lo smalto verde sulle unghie dei piedi, e divertite le mostriamo quello rosa delle nostre. Insomma, si chiacchiera tra ragazze. Poi, ci fa vedere i due tatuaggi che le decorano la pelle. Uno è una scritta in birmano, mentre l’altro è un cuore trafìtto da una freccia con in mezzo la scritta «Love». Non possiamo fare a meno di pensare al suo compagno, l’amore della sua vita, che di fronte allo stigma dell’HIV/AIDS le ha voltato le spalle ed è fuggito.
Dopo una mezz’oretta di chiacchiere, risate e battute, è ora di lasciare Aung per proseguire il nostro giro di visite. La ragazza ci stringe la mano e ci ringrazia per essere venute; spera di rivederci presto. Sicuramente, il nostro collega Toby tornerà l’indomani per portarle acqua, cibo e un po’di allegria. Prima di congedarci, la ragazza richiama la nostra attenzione per raccontarci un curioso aneddoto: il giorno prima era distesa sul letto, di fronte alla porta d’entrata, e ha visto if fratello avvicinarsi alla porta di casa rimasta aperta. Dietro di fui, c’era un fantasma maligno che lo seguiva. Aung era spaventata e temeva che lo spirito potesse entrare in casa. Tuttavìa, nel momento in cui il fratello ha varcato la porta, il fantasma è rimasto bloccato all’entrata grazie ai talismani scacciaspiriti che, appesi sopra lo stipite, tintinnano al vento. Noi rimaniamo colpite da questa storia, ma anche incuriosite. Chissà se Aung ha solo delle allucinazioni, o può vedere con i suoi occhi una realtà che a noi è nascosta.

Sri Lanka: dalla povertà alla schiavitù
La migrazione delle donne verso i Paesi del Golfo per essere impiegate nel lavoro domestico è pratica comune in Sri Lanka. È un modo per sfuggire alla povertà, a un matrimonio combinato, alla pressione della famiglia, o semplicemente per migliorare il proprio futuro. Ma la realtà in cui ci si trova è spesso ben lontana dalle proprie aspettative. Una realtà dove lo sfruttamento è la norma, e non mancano le violenze fisiche, le molestie sessuali: una sorta dì schiavitù domestica dalla quale è ben difficile sfuggire. In Sri Lanka, numerosi intermediari incassano laute provvigioni, per le quali spesso le donne sono anche costrette a indebitarsi.
Questa è la storia di Ramyalatha, una donna di 31 anni di Kandy. Ramyalatha è partita per il Kuwait quando aveva 26 anni, appena dopo il ritorno della madre, che era stata anche lei a lavorare all’estero. I maltrattamenti sofferti da parte del datore di lavoro e le brutte esperienze vissute tornano ancora come degli incubi.
«Quando arrivai a Kuwait City, l’intermediario che si era occupato di organizzare tutto era all’aeroporto per ricevermi, e mi portò subito in una famiglia di quattro persone, padre, madre e due figli». La famiglia per la quale Ramyalatha lavorava non le fornì neanche una stanza in cui stare: le mostrarono semplicemente un angolo della cucina dicendole di tenere lì i suoi vestiti e le sue cose. Dal primo giorno venne messa al lavoro. «Sentivo la nostalgia di casa – dice Ramyalatha -, mi ricordavo dei miei genitori ma non potevo comunicare con nessuno». Il cibo che riceveva era per lo più immangiabile; doveva lavorare dalle sei di mattina fino ad oltre mezzanotte, senza neanche un posto per poter riposare. Anche la notte, rimaneva sempre in cucina seduta su una sedia con i piedi appoggiati al muro cercando di riposare un po’prima di riprendere il lavoro all’alba. «Nonostante tutto questo cercavo sempre di fare del mio meglio con il lavoro» aggiunge Ramyalatha.
I contatti con la famiglia in Sri Lanka erano proibiti, e le lettere che scriveva erano immediatamente stracciate. Una volta che sua madre aveva telefonato, le era stato detto che Ramyalatha era morta. I suoi datori di lavoro temevano che lei potesse segretamente parlare con lo Sri Lanka e l’avevano minacciata di morte puntandole un coltello alla gola. Un giorno Ramyalatha riuscì a parlare con la madre in Sri Lanka; piangevano tutte e due al telefono e Ramyalatha chiese alla madre di riportarla a casa.
Quando la famiglia usciva, Ramyalatha veniva chiusa a casa in una stanza, e doveva mangiare il cibo che le lasciavano oppure digiunare. Un’unica volta le fu concesso di uscire dì casa per buttare la spazzatura, sempre sotto il controllo della padrona di casa, che temeva potesse parlare con qualcuno.
«Così passavano le mie giornate. Quando ero da sola non facevo che piangere» dice Ramyalatha ripensando alle sofferenze subite. «Anche quando pensavo di scappare da quel posto, mi prendeva la paura, e rimanevo nella mia miseria. Quando chiedevo di essere pagata, venivo minacciata di morte. Così, smisi del tutto di chiederlo…».
In aggiunta alla crudeltà degli adulti, anche i due figli la perseguitavano e la picchiavano. Ramyalatha rimpiangeva amaramente di aver cercato quel lavoro, ma rimaneva in quella casa poiché non sapeva dove altro andare, soltanto aggrappata al ricordo dei suoi familiari e dei suoi amici in Sri Lanka.
Un giorno la padrona di casa le chiese di pulire tutta l’abitazione. Ramyalatha si preparò con un secchio di acqua calda e una tanica di varechina. Ma la padrona le ingiunse di buttare via l’acqua, e di usare la varechina soltanto. Ramyalatha sentiva gli occhi lacrimare e le mani bruciare, ma non poteva interrompere poiché la padrona di casa continuava a sorvegliarla. Quando ebbe finito, Ramyalatha corse a lavarsi le mani, e sentì la pelle delle parti ustionate che veniva via.
Dopo sei o sette mesi, le cose continuavano sempre nello stesso modo, anzi peggioravano. Un giorno, i suoi padroni erano usciti chiudendola in una stanza; ma quando Ramyalatha provò la serratura vide che era aperta. Corse allora a chiamare la madre, raccontandole tutti i dettagli della trappola in cui si trovava e le chiese di riportarla a casa prima che fosse troppo tardi. Poi tornò nella sua stanza, facendo finta di nulla.
La madre si recò dall’intermediario che in Sri Lanka aveva organizzato tutto, ma venne cacciata via. Allora si recò dall’agente kuwaitiano, e lo minacciò di riferire tutto alla polizia; infine, lui acconsentì di riportare Ramyalatha in Sri Lanka allo scadere del primo anno di contratto. Qualche settimana dopo, Ramyalatha usò i pochi risparmi che era riuscita ad accumulare per comprare un biglietto aereo, e tornò in Sri Lanka. «Ora sono contenta di essere ritornata viva – dice Ramyalatha – e penso di sposarmi il mese prossimo. Ci sono ancora macchie sulla mia mano, li dove sono stata bruciata dal disinfettante».

La questione
E’ difficile ridurre la complessità dei temi in gioco ad elementi di sintesi che possano consentire una lettura dei fenomeni e delle trasformazioni in corso sulle questioni del lavoro. È uno sforzo che è stato fatto anche dalle principali reti sindacali internazionali per proporre elementi di attenzione sugli orientamenti che si vanno assumendo a livello globale53. Su questo piano il punto di attenzione principale continua ad essere quello di favorire il rispetto universale degli standard fìssati dall’ILO per un «lavoro decente» (decent work).
Il primo elemento che si può mettere in evidenza è l’importanza dei fattori globali in questo processo. Le statistiche mettono in evidenza forti aumenti medi di produttività, e allo stesso tempo un calo del peso della quota dei salari sul prodotto interno lordo: questo fenomeno è quello che si traduce, nella pratica, in una sempre maggiore pressione sui lavoratori, ad esempio, del Bangladesh e dell’India, chiamati a ritmi di lavoro sempre più alti, a salari da fame, a tutele pressoché inesistenti: tutti fattori che spesso si trovano dietro a questi «aumenti di produttività». È per questo che è indispensabile un’attenzione a politiche commerciali più giuste, al rispetto dì standard a livello internazionale, ad una regolamentazione dei criteri di investimento: tutti elementi che hanno poi un impatto immediato sulle condizioni dei lavoratori, e che vanno accompagnate da politiche nazionali adeguate, prima tra tutte il rispetto dei diritti associativi e sindacali.
Un secondo elemento che deve essere evidenziato è quello relativo alla condizione femminile. Le donne sono sistematicamente sfavorite nell’accesso al lavoro, e quando un lavoro ce l’hanno, esso è spesso svolto in condizioni di maggiore precarietà e remunerato in misura minore. In molte aree del mondo la proporzione degli occupati sul totale tra popolazione maschile e femminile vede divari molto significativi: alle donne non è consentito l’accesso ad un impiego «riconosciuto», e questo comporta una forma di segregazione dalla società senza che i carichi di attività finiscano per essere meno importanti. Le donne sono inoltre maggiormente sottoposte ad abusi e violenze. Nell’affrontare il tema dello sfruttamento del lavoro la diversità delle condizioni degli uomini e delle donne deve essere considerato un fattore di primaria importanza.
Una terza questione che ha bisogno di una riflessione attenta è quella relativa al rapporto tra migrazione e lavoro. Quello che emerge dalle esperienze concrete è quanto siano importanti, accanto alla più tradizionale motivazione economica, tutta una serie di elementi collegati al desiderio del migrante di «sfuggire» non solo, appunto, a condizioni economiche precarie, ma anche ad un ventaglio più ampio di fattori di costrizione (sociali, politici, culturali). In questo senso la condizione di approdo, e in particolare la fonte di sostentamento, diventa un elemento chiave: può essere veicolo di miglioramento economico (pur in condizioni di sfruttamento e precarietà), ma anche fattore di ulteriore marginalizzazione sociale. In questo la battaglia per una transizione verso un «lavoro decente» è una battaglia per la scelta consapevole del lavoratore migrante.
Il quarto elemento che si vuole proporre alla riflessione è quello del tema, centrale nel contesto attuale, del poverty in work. La crisi economica che ha scosso il pianeta negli ultimi anni ha messo in evidenza una realtà che nei sistemi sociali ed economici più vulnerabili era molto diffusa anche ben prima della crisi stessa. Il tema è quello dei lavoratori il cui reddito non è sufficiente per assicurare una vita dignitosa e serena. Le statistiche danno questo fenomeno in costante calo nel corso degli ultimi decenni. Ma si stima che nei 2013, calcolando una soglia di reddito di 2 USDS4 al giorno, il 65,2% dei lavoratori nei Paesi in via di sviluppo ricadesse in questa categoria. Si tratta di un problema che tocca in maniera assai importante anche le economie avanzate, e tra esse anche il nostro Paese, come messo in evidenza dal recentissimo report sulle conseguenze della crisi di Caritas Europa55. Su questo problema è necessario operare con azioni di sostegno dirette, ma forse ancor di più con azioni di advocacy, a tutela dei lavoratori sottoposti alla discrezionalità dei propri datori di lavoro e delle autorità stesse.
Infine, è importante osservare le problematiche del lavoro in connessione con quelle della povertà di servizi di contesto: la vita di molti lavoratori è particolarmente difficile a causa di difficoltà nel trovare soluzioni abitative decorose, di carenza di servizi sociaii e sanitari, di carenza di servizi educativi (la gestione dei figli durante le ore di lavoro). Una conoscenza più approfondita delle caratteristiche della povertà è una base fondamentale per comprendere come intervenire per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.

28 Maggio 2015 | 18:00
Tempo di lettura: ca. 17 min.
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