«La Sindone? Va osservata senza pregiudizi, così entra nel cuore»

DOMENICO AGASSO JR
TORINO
Con la morte dell’ultimo re d’Italia Umberto II di Savoia, avvenuta il 18 marzo del 1983, la Sindone è passata per volontà testamentaria in proprietà della Santa Sede. Da allora il Custode per conto del Papa è l’arcivescovo di Torino, dunque adesso monsignor Cesare Nosiglia.
Nosiglia in questo anno 2015 si appresta a guidare l’Ostensione della Sindone, che inizia oggi e durerà fino al 24 giugno, il bicentenario di san Giovanni Bosco, la visita a Torino di papa Francesco (21 e 22 giugno) e il V Convegno ecclesiale nazionale a Firenze (9 – 13 novembre) su «In Gesù Cristo un nuovo umanesimo».

Eccellenza, per Lei dal punto di vista personale questo è un periodo straordinariamente intenso: Ostensione della Sindone, bicentenario di san Giovanni Bosco, visita del Papa, Convegno ecclesiale nazionale di Firenze. Se lo aspettava un anno così? Si sente pronto?
«Non me lo aspettavo, ma sono pronto. E motivato, perché vedo che la Chiesa e la Città di Torino si sono mobilitati con grande impegno per affrontare questi mesi intensi di eventi spirituali, culturali e sociali. La continuità e il rapporto tra questi avvenimenti è racchiuso bene nel motto «L’amore più grande», che ho scelto per l’Ostensione ma che si applica bene anche per don Bosco e la visita del Papa. Anche il Convegno di Firenze vuole affrontare un tema che è strettamente connesso con questo Amore vera fonte di un nuovo umanesimo che trova in Gesù Cristo il suo cuore ricco di misericordia e di salvezza. Per la nostra Chiesa di Torino in particolare è anche l’occasione per imitare la fede e la testimonianza che di questo Amore ci hanno dato tanti santi e beati di questa terra benedetta da Dio. Questo motto indica la volontà di accogliere in se stessi il dono del Signore che emerge in questi eventi: si tratta di non limitarsi a celebrare ogni singolo avvenimento ma di collegarli in un percorso di spiritualità e di coinvolgimento del popolo di Dio, che faccia crescere la comunione e l’unità e nello stesso tempo la missione, per annunciare l’amore di Cristo dentro l’agorà del nostro tempo».

Eccellenza, che cos’è la Sindone?
«È il Telo che ci mostra in modo autentico e immediato il racconto evangelico della Passione e morte di Gesù Cristo. Se si prende il Vangelo, si legge quello che il Figlio di Dio ha sofferto e patito; ecco, sul Telo sindonico lo si «vede»: i segni della flagellazione, della corona di spine, dei chiodi, della lancia. Questa corrispondenza con il Vangelo è l’aspetto più vero della Sindone, che va al di là dei discorsi scientifici: gli studi sono necessari, ma c’è un piano diverso su cui accostare il Sacro Lino, un piano che penetra nel cuore, va dentro la coscienza».

Ma la Sindone è una reliquia?
«I Papi degli ultimi decenni non hanno usato questo termine perché se da un lato ci sono buone ragioni di plausibilità e di possibilità è anche vero che la scienza non è stata finora in grado di proporre un’interpretazione complessiva sulla formazione dell’immagine che come disse san Giovanni Paolo Secondo «è una provocazione per l’intelligenza». Il Telo resta ancora una realtà inesplicabile per certi versi ma ricca comunque di una suggestione che avvicina al cuore del Vangelo: la Passione e morte di Gesù. Ecco perché occorre osservarla senza pregiudizi: bisogna lasciarsi investire dal momento dell’incontro, che non è solo emozionale: può aiutare a riscoprire nella propria interiorità e vita dinamiche che magari restano in ombra e di cui forse si ha nostalgia, come l’amore che si dona, il senso della condivisione e della solidarietà con chi soffre».

I credenti hanno bisogno della Sindone?
«Sì, per avere speranza, ma non umana, che spesso è illusoria, bensì una speranza forte che dica veramente che si può vincere il male, che c’è qualcosa oltre. Perché il Telo presenta la Passione di Gesù che è il segno più grande dell’amore, e non è solo sofferenza. Certo, la via è quella del dolore, ma apre a una dimensione più alta: la consapevolezza che dove c’è la strada apparentemente più difficile esiste uno sbocco positivo derivante dalla speranza certa della vittoria finale. Non è materia di fede, la Sindone, però conferma, dà forza per credere sempre e ancora di più a Dio che ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, e l’ha dato in quel modo, assumendo i dolori e la sofferenza degli uomini. E poiché la Passione sfocia nella Risurrezione tutto ha un senso, vale la pena di viverla. La Sindone «Icona del Sabato Santo» come l’ha definita Benedetto XVI è dunque già  preludio della Risurrezione».

Ci può aggiornare sugli studi sul Sacro Telo?
«Al momento non è attivata alcuna campagna di ricerche; però non cessano i lavori di studiosi, teologi, scienziati. Si occupano della Sindone perché resta un’impresa che affascina, dato che non c’è ancora una condivisione sulla datazione, sull’autore, sulla forma. È difficile da spiegare dal punto di vista scientifico, perché non è un disegno, non è un’icona, né una fotografia, quindi resta un mistero. Anche coloro che esprimono sicurezze si imbattono sempre in qualche zona d’ombra, dentro cui si incuneano altri studiosi che mettono in crisi quelle presunte certezze. La Chiesa non ha competenza su questa materia, non essendo un discorso di fede, ma affida a ricercatori e scienziati questo «dovere»: mai ha opposto resistenza, anzi ha sempre invitato a continuare a cercare risposte appropriate, però a una condizione: che ci sia un’onestà intellettuale, che non si parta già da supposizioni ideologiche a priori, le quali compromettono di fatto i risultati».

A cosa serve soprattutto l’Ostensione?
«Mettere la Sindone a disposizione della devozione dei fedeli sul piano della contemplazione, della preghiera».

Che cosa direbbe e come agirebbe don Bosco nel 2015?
«San Giovanni Bosco direbbe di amare i giovani e prenderli sul serio così come sono, senza pretendere di cambiarli con regole o idee o imposizioni che abbiamo dentro noi adulti e che riteniamo giuste. È il messaggio più immediato. Poi direbbe agli educatori di essere testimoni coerenti tra ciò che dicono di fare ai giovani e ciò che loro vivono, perché a volte non è così. Spesso noi adulti comunichiamo degli insegnamenti ma non comunichiamo noi stessi, rimaniamo chiusi. Don Bosco diceva che l’educazione è una questione di cuore: bisogna che il giovane senta che lo stai amando, che tu gli dai il tuo cuore, cioè gli metti in mano il tuo cuore, e chiedi anche a lui di darti il suo cuore, allora si crea una sintonia profonda, una empatia dal punto di vista psicologico, che porta poi ad avere un accesso enorme alla sua vita. Questa è la chiave: mostrare che li amiamo senza riserve o ricatti morali. Poi direbbe ai giovani stessi di puntare in alto verso traguardi che sembrano impossibili alla loro età ma che invece sono raggiungibili. Loro sono fatti per volare alto, invece la società vuole imbonirli con messaggi che soffocano questi slanci ideali verso una vita più alta. Inviterebbe i giovani a cercare le relazioni, quelle vere, e non solo quelle virtuali: devono avere il coraggio di vivere la realtà concreta della vita prendendola in mano e non appoggiandosi solo ai genitori quando c’è bisogno, altrimenti si diventa mediocri. Don Bosco li aiutava, però poi li stimolava a essere protagonisti del proprio presente e futuro. Don Bosco agirebbe «in uscita», come dice papa Francesco: andava a cercarli dov’erano, questi «ragazzacci», come venivano chiamati; adesso li cercherebbe nella movida o nei supermercati o per la strada. Di questo dobbiamo preoccuparci e don Bosco ci insegna a relazionarci con i giovani uscendo anche da noi stessi come adulti, mettendoci in gioco».

Papa Francesco a Torino: che cosa si aspetta dalla sua visita?
«Sono certo che darà la sveglia a tanti che oggi sono un po’ scoraggiati o «addormentati», incerti di fronte alle sfide del momento attuale e che quindi si chiudono dentro al proprio «cerchio», parrocchia, gruppo, realtà, quasi come se fossimo una «cittadella assediata». Bisogna risvegliare le coscienze e prendere sul serio l’annuncio del Vangelo che ci spinge a uscire fuori, a stare in mezzo alla gente con spirito di condivisione e accoglienza, a metterci in gioco sulle frontiere più avanzate delle periferie esistenziali di tanti che vivono ai margini della Chiesa o se ne sentono esclusi».

Che cosa pensa della scelta del Pontefice di andare a visitare il tempio valdese?
«Mi ha colpito molto, perché storicamente ci sono state le note tensioni e contrapposizioni tra cattolici e valdesi. Ma il gesto di papa Francesco è rivolto a tutti: incoraggia a non avere timore di dialogare, di incontrarsi, mettersi insieme perché ci sono dei traguardi che solo insieme si possono raggiungere. Papa Bergoglio è un grande costruttore di ponti, vuole distruggere tutti i muri, e muri ce ne sono tanti, materiali e ideologici. Andare dai valdesi è un altro ponte «lanciato». Spesso quando lancia ponti trova risposte da gente da cui non ci si immaginava, significa che c’è bisogno di questi ponti fatti di relazioni e di dialogo. Francesco innesterà un cammino che andrà ben oltre alla vicenda cattolici-valdesi, che sarà esempio, testimonianza e invito per tutti, credenti, religiosi e non, a venirsi incontro».

Eccellenza, quali sono i suoi auspici per il Convegno nazionale ecclesiale (9 – 13 novembre)? In che direzione deve andare la Chiesa del terzo millennio, in particolare quella italiana?
«Il Convegno ecclesiale ha assunto un orientamento preciso: quello dell’»Evangelii gaudium». Ci siamo posti in questa scia, e ci siamo impegnati a sostenere anche attraverso il Convegno questo testo del Papa, nuovo nello stile e nei contenuti: la traccia del Convegno accoglie pienamente quelle  che sono le indicazioni fondamentali dell’Esortazione apostolica e incentra tutto attorno all’umanesimo nuovo in Gesù Cristo partendo da una riflessione teologica, culturale ed ecclesiale, ma assumendo dal punto di vista pastorale le cinque vie proposte dal Papa: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Insieme a questo desideriamo anche accogliere il suo insistente invito a esercitare un sano discernimento comunitario sorretto dallo Spirito e guidato dalla volontà di conversione al Vangelo che esprima con chiarezza che la centralità di Cristo è un grande «sì» all’uomo di oggi anche nelle situazioni più difficili come in quelle più serene che l’uomo vive. In Lui non ci sono «no» se non quello al peccato. Quando la Chiesa dice dei «no»  è perché questi no distruggono l’umanità stessa della persona. In Cristo c’è un grande «sì» a tutto quello che c’è di bello e di buono, di vero, di autentico nel cuore dell’uomo. Da questo nasce la missione, quella chiamata a rendere feconda e vera l’azione della Chiesa a partire dall’incontro con Cristo. Il nuovo umanesimo si costruisce insieme, non attraverso modelli alternativi precostituiti, ma partendo dal basso, dallo stile della rete, del coinvolgimeno di tutte le componenti del popolo di Dio, sia prima sia durante il Convegno. Non è una scelta solo di metodo, ma la scelta di una Chiesa che non si arrocca, non è chiusa in se stessa, ma si apre anche all’incontro e confronto con altre culture, portatrici spesso di posizioni distanti dal Vangelo ma che sono propugnate comunque da persone, e guardando le persone bisogna cercare di stabilire comunque un dialogo per il bene di tutti. La Chiesa italiana, con questo Convegno intende porsi in marcia con maggiore entusiasmo lungo la via della testimonianza evangelica da dare sul piano dei fatti, non solo delle parole. L’annuncio evangelico deve diventare vita come faceva Gesù, sulla via della carità, della cultura e sopratutto della misericordia».

Il Giubileo straordinario della misericordia: come commenta questa iniziativa di papa Francesco? Ce n’era bisogno?
«Vedo nell’Ostensione della Sindone il preludio al Giubileo, perché la misericordia appare con evidenza dal Telo che mostra il volto e il corpo di Colui che ha amato in maniera così grande da dare la sua vita. Credo che questo Giubileo sia molto atteso e desiderato soprattutto dai tanti poveri di Dio che si aspettano gesti concreti di tenerezza della Chiesa. Anche il Convegno ecclesiale dovrà essere un grande evento di misericordia vissuta nella sua stessa celebrazione dai delegati. Se noi partiamo da Gesù non possiamo non sperimentare dal vivo il suo tratto più vero e autentico e umanamente ricco verso i peccatori, gli emarginati e gli esclusi. Quindi la scelta di Francesco è quanto mai opportuna, vista anche la situazione di gravissima difficoltà di molti cristiani perseguitati, uccisi in odio alla fede, ma anche di tanti «ultimi» delle nostre città privati dei diritti fondamentali. La misericordia del Padre sana le ferite dei corpi e dell’anima e può dare forza e speranza di una ripresa morale e sociale».

Tra i tanti appelli lanciati – ai fedeli e alle gerarchie ecclesiastiche – da Bergoglio nei primi due anni di pontificato, quale sottolinea?
«L’appello alla nostra conversione anche personale come pastori e come cristiani. Perché è facile a volte chiedere agli altri di cambiare mentre noi stiamo fermi. Lui invece dice a noi Pastori di dare l’esempio: ogni cristiano in fondo è chiamato a questo, però se noi per primi ci poniamo in questa prospettiva, allora chi vive ai margini delle nostre comunità forse vede che qualcosa è cambiato. Francesco lo indica con chiarezza non solo a parole ma con lo stile e la testimonianza di fatti concreti, incisivi, essenziali che per la loro semplicità incidono sul quotidiano della gente e inducono a cambiare di conseguenza se stessi. Perché la gente ha bisogno di vedere che noi pastori non svolgiamo un ruolo, ma un servizio che investe anzitutto la nostra conversione e coerenza di fede e di povertà e ci impegniamo per svolgerlo nel modo migliore e autentico. Io mi sento personalmente coinvolto dall’appello alla conversione di Francesco. Non è un discorso generico, sento che si sta rivolgendo proprio a me, e questa è una forza tipica del Vangelo annunciato da un testimone: quando ti parla, anche davanti a un milione di persone, ti sembra che dica qualcosa che riguarda proprio te. E questo lo sentono anche tanti non credenti: posso testimoniare che ci sono persone lontane dalla fede che girano il mondo per lavoro, e che fanno i «salti mortali» per ascoltare l’Angelus di Francesco. Papa Bergoglio è diventato un punto di riferimento di cui non si può più fare a meno».

La situazione internazionale che stiamo vivendo a causa del terrorismo vi preoccupa?
«No. E non deve preoccupare nemmeno i pellegrini. Non credo infatti sia il caso di allarmismi ingiustificati che fanno il gioco di chi pesca nel torbido. L’Ostensione e la visita del Papa saranno garantite al massimo anche sul piano della sicurezza da una serie di misure preventive e di stretta collaborazione tra tutte le componenti delle forze dell’Ordine e di quelle militari presenti in forza a Torino. Ma quello che più conta è che mai e poi mai dobbiamo cedere alla paura, ma rendere se mai ancora più evidente con la nostra viva partecipazione che l’Ostensione è un evento di fede e un pellegrinaggio di pace verso tutti. Prendere parte all’evento significa porre in campo un netto rifiuto pacifico ma efficace contro ogni forma di violenza o contrapposizione. Mi ha molto confortato in proposito, il modo con cui la città di Torino colpita al cuore dalla tragedia del Museo del Bardo di Tunisi ha reagito a questo evento. Ho visto nei funerali che nessuno ha chiesto vendetta, bensì amore, preghiera e  speranza  che il male sia vinto con il bene,  perché niente potrà mai ostacolare la forza di quell’Amore più grande che Cristo ci ha donato e sul quale possiamo sempre sperare e lottare anche per costruire un mondo di giustizia, di solidarietà e di pace».

 

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21 Aprile 2015 | 07:59
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