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Il parroco di Codogno: «Viviamo nelle sventure come Giobbe. Ripartire dall'esempio dei medici»

Undici bare nella chiesa di San Teodoro. Il parroco di Codogno, don Iginio Passerini, le ha benedette in mattinata. Sono i feretri dei defunti in attesa della cremazione. Vengono sistemati provvisoriamente in chiesa, poi saranno trasferiti fuori dalla Lombardia. Nella regione italiana più colpita dal coronavirus, da giorni i forni crematori non reggono il passo dei decessi. «A Codogno, in un mese, sono morte 124 persone. Nello stesso periodo del 2019 erano state 45», quasi un terzo in meno. «E non contiamo le case di riposo», sospira don Passerini, «perché gli ospiti non sono residenti. A Codogno ce ne sono tre e i morti sono una cinquantina. Una strage».

Un mese e una settimana fa, all’improvviso, questa piccola cittadina diventava famosa in tutto il mondo. Primo caso di coronavirus in Italia, poi subito il contagio nei paesi limitrofi: l’area sud della provincia di Lodi veniva blindata come «zona rossa». Sembra passato un secolo, nel frattempo la pandemia si è diffusa in tutta Europa. A Codogno, 15mila abitanti, ora i malati sono in calo. Le misure restrittive sembrano funzionare, ma i decessi ancora non si fermano. 

Monsignor Passerini, 72 anni, già vicario generale della diocesi di Lodi, è parroco a Codogno dal 2015. Lo raggiungiamo telefonicamente quando è appena rientrato dalla benedizione dei feretri.

Don Passerini, com’è la situazione oggi a Codogno?
I contagi sono diminuiti negli ultimi giorni. Ne abbiamo avuti in tutto circa trecento, concentrati soprattutto nelle prime settimane della crisi. L’imposizione della «zona rossa» è stata un bene, col senno di poi. Senza quella misura, oggi il basso lodigiano vivrebbe una condizione ancora più drammatica.

E la gente come reagisce all’epidemia?
C’è apprensione, anche nella nostra comunità cristiana: ognuno è in pensiero per la propria famiglia. E poi c’è il dramma dei malati soli negli ospedali, delle tumulazioni al cimitero senza il conforto di un abbraccio. Le persone care se ne vanno e non si può nemmeno salutarle per l’ultima volta.

La chiesa di San Biagio e della Beata Vergine Immacolata, parrocchia principale di Codogno

Come accompagnate le famiglie colpite dal lutto?
Proviamo a far sentire che non siamo lontani. Con una telefonata, una parola di conforto. A Codogno abbiamo una storica radio cittadina, ogni mattina alle 10 trasmettiamo la messa. I parrocchiani ci chiedono di dire il nome di un defunto, per loro è importante. Purtroppo non conosciamo tutti i morti: le pompe funebri lavorano ininterrottamente e non riescono a trasmetterci gli elenchi completi. Segniamo su un foglio i nomi delle persone che ci vengono segnalate e le ricordiamo nella preghiera.

Oltre alla messa via radio, ci sono altre iniziative?
Ogni pomeriggio va in onda il rosario, la domenica pomeriggio trasmettiamo la messa in diretta su YouTube. All’ultima erano collegate più di 400 persone: la gente ha bisogno di pregare, di sentirsi in unità davanti al Signore. Poi tramite le videoconferenze siamo in contatto coi ragazzi, con i catechisti e il consiglio pastorale.

Il clima a Codogno è ancora pesante.
Mi viene in mente il libro di Giobbe, quando il profeta vive un annuncio continuo di sventure. È così in questi giorni: «È morto quel signore», «Quella donna è ricoverata», «Un altro è peggiorato»… Siamo sommersi da una valanga che non sembra arrestarsi, con la paura di sapere chi sarà il prossimo. Come Giobbe viviamo questa situazione e ci rivolgiamo a Dio, gli chiediamo il perché di quello che sta succedendo.

Monsignor Iginio Passerini

L’isolamento di Codogno dura da più di un mese. Che cosa sente di consigliare a chi, come la gente del Ticino, vive questa stessa condizione da pochi giorni?
Ci vuole pazienza, come sull’arca di Noé: siamo qui, tutti insieme, e dobbiamo aspettare che smetta di piovere.  Posso suggerire di cercare le opportunità che questo tempo nasconde. Ad esempio, le famiglie trascorrono più tempo con i figli. Può essere un momento buono per riallacciare qualche rapporto, o per rendere più efficaci i legami che viviamo nella quotidianità.

In questi giorni tragici, qualche segnale di speranza?
La solidarietà. È stata un’esplosione, tante persone si sono attivate per aiutare gli anziani, per sostenere le associazioni più impegnate come Protezione civile, Caritas o Croce rossa. E poi l’esempio dei medici e del personale sanitario, una dedizione ammirevole. Come Chiesa dobbiamo guardare a queste persone: sono di stimolo a diventare donne e uomini che vivono della capacità di donarsi agli altri.

Finita l’emergenza bisognerà ripartire.
In questi giorni sentiamo che ai fedeli, e alle famiglie in particolare, non basta la semplice comunicazione: chiedono di essere coinvolti nella loro soggettività. Su questo dovremo riflettere: come riattivare ad esempio la soggettività delle famiglie, all’interno delle case oltre che nello spazio pubblico? Questa situazione facilita l’aprirsi a un pensiero più alto, a una ricerca di Dio. Sono domande che nascono e preparano il cammino di domani. Certo, non sarà facile: soprattutto dal punto di vista lavorativo, abbiamo davanti tanta incertezza.

Lei è stato vicario generale della diocesi di Lodi, dove quattro sacerdoti hanno perso la vita e altri sono malati. Come esce la Chiesa da questa crisi?
Eravamo tutti molto impegnati nella preparazione del Sinodo diocesano in programma per il 2021. Questa pausa ci impone di fermarci a riflettere, ci aiuterà ad approfondire le varie questioni e a mettere al centro le priorità a cui dovremo dedicarci. La morte di alcuni confratelli ci richiama a mettere ancora di più a disposizione la nostra vita. In questi giorni ci sentiamo spesso tra preti, chi è malato ci aggiorna con dei messaggi: come per le famiglie, anche noi riscopriamo la fraternità. Crediamo che nella vita nulla accade per caso: la sfida oggi è cogliere il senso di quello che sta succedendo e rispondere all’appello nascosto in questa vicenda.

Gioele Anni

29 Marzo 2020 | 15:00
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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