Papa e Vaticano

Francesco nell'altra metà del mondo

di Annachiara Valle
Famiglia Cristiana – 5 luglio luglio

Tre paesi in cerca di speranza
Ecuador – 15.775.000 abitanti; 13.780.000 cattolici; 36 ospedali, 133 ambulatori, 4 lebbrosari gestiti dalla Chiesa
Bolivia – 11.280.000 abitanti; 9.301.000 cattolici; 46 ospedali, 135 ambulatori, 2 lebbrosari gestiti dalla Chiesa
Paraguay – 6.783.000 abitanti; 6.318.000 cattolici; 3 ospedali, 34 ambulatori, 1 lebbrosario gestitodalla Chiesa

La polvere che si alza dalle miniere scricchiola tra i denti, si appiccica alla pelle. Nella salita che arriva al vulcano Pululahua la gente lavora e soffre. A due passi i turisti fanno la fila per vedere «la metà del mondo’; la linea dove passa l’Equatore – che dà il nome all’intero Paese – e il palazzo dell’Unasur luccica tra le bandiere dei Paesi del Sud America. Per molti, a Quito, è «l’elefante bianco», perché l’organismo che doveva portare a una unione commerciale, culturale ed economica dei Paesi aderenti, sul modello dell’Unione europea, stenta a favorire sviluppo e lavoro. E così, mentre non si riesce a combattere corruzione e narcotraffico, cresce la disuguaglianza sociale e aumenta il numero dei poveri.
«È una contraddizione», spiega da Bogotà Susana Nuin Nuflez, portavoce del Celam (Conferenza episcopale latinoamericana), «perché nel nostro continente la fede è un elemento forte, eppure abbiamo la maggiore iniquità. La giustizia sociale è minacciata dal neoliberalismo. Aumenta la distanza tra ricchi e poveri e cresce l’impoverimento, che non è solo mancanza di soldi, ma mancanza di lavoro, esclusione sociale. Il modello economico che viviamo non è fatto per il benessere delle persone e i più fragili e deboli ne pagano le conseguenze. Questo è uno dei motivi per cui si aspetta tanto la visita di papa Francesco. Lui è figlio di questo episcopato e di questo continente, conosce bene la situazione e vuole dare risposte concrete soprattutto per i problemi di quelli che soffrono».
I poveri si vedono ai bordi delle strade. Non lavano i vetri, non chiedono l’elemosina. Vendono. Vendono di tutto, dai mandarini al formaggio, dall’acqua alla frutta secca ai gelati. «Un dòlar, un dòlar», cantilenano all’automobilista distratto che si accosta al semaforo. Grandi e piccoli, con i vestiti tipici dei campesinos, scendono in strada già dall’alba macinando a piedi chilometri di strada per racimolare il minimo per sopravvivere.
«I campi si svuotano, cresce la migrazione, si rompono le famiglie», dice padre Giorgio Peroni, per nove anni segretario generale della Pastorale sociale Caritas Ecuador e impegnato da sempre con campesinos e nativi a Latacunga, 40 chilometri a sud di Quito. «La carità è la carezza della Chiesa al popolo», recita il poster di papa Francesco che il sacerdote ha appeso quasi all’ingresso della sua casa: niente acqua corrente, niente riscaldamento. Padre Giorgio condivide la stessa vita dei suoi fedeli. «Un tempo questo era un seminario indio, ma poi le vocazioni sono scemate e ora è solo un’abitazione», dice accendendo il caminetto. «Sono contento però della maggiore consapevolezza che hanno gli indigeni di loro stessi e dei loro diritti. Un tempo noi eravamo la loro voce e avevamo fondato la radio per arrivare più lontano. Oggi, anche con la radio diocesana, sono loro capaci di farsi sentire». Anche grazie al loro impegno e all’alleanza delle Conferenze episcopali è nata la Rete panamazzonica «che coinvolge la Clar (Confederazione latinoamericana e caraibica di religiosi e religiose), il Celam, le Caritas dell’America latina e le diocesi del’Amazzonia. «Un impegno doveroso per fermare le esplorazioni e salvare il polmone del mondo e i suoi abitanti».
Perché se è vero che i Governi, a parole, si dicono impegnati sul tema ambientale e di salvaguardia della foresta, in realtà gli interessi economici spingono in altra direzione. «Per restare all’Ecuador», spiega padre Peroni, «basta ricordare che è vero che il Pil cresce, ma cresce anche il debito estero. Il problema del Paese è di reperire fondi e il petrolio dell’Amazzonia è una tentazione troppo forte». D’altra parte, solo poche settimane fa, commentando le leggi approvate in Bolivia per l’esplo-
razione della foresta, il presidente Evo Morales non ha esitato a sottolineare che i Paesi latinoamericani «non sono le guardie forestali del mondo».
L’allusione, neanche troppo velata, era all’impegno delle nazioni a finanziare almeno in parte la conservazione della foresta amazzonica. Impegno, al momento, quasi del tutto disatteso. «Dall’occidente non arrivano soldi, ma imprese di trivellazione ed estrazione», dicono sia in Ecuador che in Bolivia. «Anche se», commenta monsignor Eugenio Coter, vescovo del vicariato apostolico di Pando, al Nord della Bolivia, in piena foresta amazzonica, «bisogna dire che ci sono stati gli sforzi dei Governi per far diminuire la povertà estrema. Anche se la Bolivia resta il Paese con più poveri nel Sud America, la povertà estrema è diminuita dal 37 per cento al 24 attraverso una politica di sussidiarietà dello Stato, con dei buoni per aiutare lo sviluppo e per sostenere l’economia scarsa delle famiglie e con uno stipendio minimo nazionale stabilito
per legge. La sfida, ora, è creare posti di lavoro effettivi che non siano frutto di clientelismo, come è accaduto con tante aziende statali».
«I problemi dei nostri Paesi sono complessi e contraddittori», dice padre Luis Nardon, oggi parroco di Fuerte Olimpo, in Paraguay. Dopo 50 anni passati al confine con il Brasile, nella colonia «Carmelo Peralta’ con la comunità indigena degli Ayoreo, il religioso salesiano continua a essere impegnato nel sociale. «Però sarà difficile per noi
arrivare fino ad Asunciòn per vedere il Papa. Da qui ci si muove solo con la barca, se non piove e, se non ci sono imprevisti, si raggiunge la capitale in una decina di giorni», racconta al telefono. «Sicuramente, però, anche la nostra voce arriverà a papa Francesco, la voce dei poveri arriva sempre».
Lavoro, terra, casa, salvaguardia del creato. Le sfide che accomunano le «tre nazioni sorelle», come le ha definite Bergoglio nel videomessaggio alla vigilia della partenza, sono simili. «Certo il Papa non potrà risolverle magicamente con la sua presenza», commenta l’arcivescovo di Quito e primate dell’Ecuador, monsignor Fausto Gabriel Tràvez, «ma ci aspettiamo che ci confermi nella fede, che continuino a crescere le vocazioni, come sta accadendo da qualche tempo, che ci dia una scossa. Non è possibile vedere queste disuguaglianze. La Bolivia, per esempio, grazie alle sue miniere d’oro, è uno dei Paesi più ricchi del Sud America, nello stesso tempo, però è quello con il maggior numero di poveri. Penso che anche in Ecuador ci sia una cattiva distribuzione della ricchezza. Il Papa viene per dire che la fede significa anche giustizia, scelta preferenziale per i poveri».
I Paesi sono pronti. Il conto alla rovescia è finito. Le forze di polizia sono dispiegate imponenti. Papa Francesco arriva. Da Quito la Madonna del Panecillo, che domina la città con le sue ali spiegate, sembra dargli per prima il benvenuto. «Bienvenido a mi familia», dicono i manifesti per strada. La gente è felice anche solo di poterlo vedere da lontano, di sapere che «è venuto nel mio Paese. Perché questo è un Papa», sussurrano i più miseri in coda per il pasto nella stessa piazza dove arriverà Francesco, «che sa stare con i poveri della terra».

6 Luglio 2015 | 12:33
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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