Don Rabino: «Lo sport? È un campo educativo privilegiato»

Intervista al Cappellano del Torino: «La Chiesa non deve abbandonare un settore in cui i ragazzi sono disponibili ad accettare certi messaggi»

di Domenico Agasso Jr, Vatican Insider

«Ha ragione il Papa: noi ecclesiastici dobbiamo essere presenti dentro la realtà sportiva, che ha tutti i suoi limiti ma che è un’opportunità per l’educazione cristiana». Lo afferma il salesiano don Aldo Rabino, 76 anni, sacerdote dal 1968, cappellano della squadra di calcio Torino da 44 anni, con esperienze missionarie in Bolivia e Brasile, di cui si occupa ancora oggi attraverso l’associazione Oasi.

Il Papa a Torino ha ricordato a voi salesiani: «Don Bosco cosa faceva? Lo sport, che porta a essere «sociali», a una competitività sana, alla bellezza di lavorare insieme, e poi all’educazione». È stato un invito a proseguire su questa strada: che cosa ne pensa?

«Il Pontefice ha richiamato tutti, Salesiani in particolare, a non trascurare questa opportunità del mondo dello sport perché, nonostante tutti i problemi che si porta dietro, continua a essere la realtà che più attira i giovani e le masse. Lo sport – e in Italia il calcio in particolare – ha talmente potere che si può cambiare fede, marito o moglie, auto, nazionalità, ma non la squadra per cui si tifa. Questo fa riflettere. Ecco che noi ecclesiastici dobbiamo essere dentro questa realtà, che ha tutti i suoi limiti ma che è una grossa opportunità educativa. Lo sport porta i ragazzi a diventare disponibili ad accettare regole, allenatori, società e compagni anche sgraditi. Li rende propensi a seguire, ad avere come punti di riferimento in un momento cruciale della loro crescita, figure adulte. Quante volte sento dire ai genitori: «Glielo dica lei questo perché mio figlio ascolta «solo lei»».

Com’è il rapporto tra la Chiesa e lo sport oggi?

«È migliorabile. Ma va sottolineato che il Centro sportivo italiano (Csi), dopo decenni di attività, raggruppa un bacino enorme di utenti, continuando a proporre i valori cristiani; il Csi è nato a fianco dell’Azione cattolica, poi successivamente è diventato più autonomo. Inoltre, una realtà sempre importante sono le polisportive salesiane. La Chiesa è attenta, negli oratori c’è stata negli ultimi anni maggiore attenzione al fenomeno sportivo. Ma non si può nascondere che la Chiesa, di fronte a questa dilatazione del fenomeno sportivo anche dal punto di vista economico, fatichi di più ad affrontarlo e ad approcciarsi, già solo per il fatto che quando lo sport diventa una «macchina da soldi» si allontana dallo stile di vita cristiano. Però allo stesso tempo si assiste a un ritorno della gente allo sport «oratoriano»: si organizzano campionati tra parrocchie, o tornei in cui l’agonismo non è esasperato, e dove si mette più in evidenza il valore del gioco, della festa, del divertimento, anziché quelli del risultato e della classifica. La Chiesa deve seguire queste dinamiche».

Dunque qual è il cammino da percorrere?

«Intanto non si può scappare da questo mondo, occorre starci dentro senza farsi contaminare; lo sport dà opportunità educative enormi, non dobbiamo «uscirne» perché quello che non proveremo a realizzare noi come Chiesa lo farà qualcun altro, e quel piccolo seme che si potrebbe piantare lo pianterebbero altri. Allora bisogna creare figure di allenatori che siano prima educatori, che si occupino della crescita dei ragazzi. Condivido l’appello del Pontefice: non abbandonare un campo privilegiato per educare, un settore in cui i ragazzi li portano i genitori e sono più disponibili ad accettare certi messaggi».

E che cosa serve soprattutto?

«Gente che si spenda, educatori che abbiano a cuore i giovani per renderli, come voleva don Bosco, «buoni cristiani e onesti cittadini». Sono contento che Francesco abbia invocato questo aspetto, che è tipico del cortile: perché lo sport nasce nel cortile, e, pensando a noi salesiani, non dobbiamo dimenticare che venivamo chiamati «cani da cortile», per il nostro spirito di stare tra i ragazzi soprattutto nei cortili. Occorrono allenatori che si occupino innanzitutto della crescita del ragazzo: devono pensare alla maturazione dell’uomo e poi anche dell’atleta e, perché no? del campione. Questi aspetti possono essere in sintonia».

Lo sport, e in particolare il calcio, oggi ha esempi positivi?

«L’ultimo «gioiello» del Torino, Matteo Darmian, giocatore della Nazionale italiana appena passato al Manchester United: è l’espressione di un ragazzo cresciuto all’oratorio che non ha dimenticato i valori che ha ricevuto, è tuttora di grande spessore umano, con una grande umiltà, non si è «montato la testa» sebbene stia raggiungendo i traguardi più prestigiosi che un ragazzo possa sognare nell’ambito sportivo».

Lei come si comporta con i calciatori del Torino? In particolare: come alimenta il suo legame con loro basato sulla fede?

«Il primo approccio è semplice, e lo sto ripetendo in questi giorni al ritiro estivo a Chatillon (AO): parlo con i nuovi arrivati chiedendo loro: «Chi sei? Come stai? Da dove vieni? Hai qualche problema? Hai bisogno di qualcosa, come per esempio consigli sull’asilo per i figli?». Il mio è un atteggiamento inizialmente concreto, che avvia un rapporto da approfondire lentamente e all’insegna della libertà e poi della spiritualità. Oggi è più difficile tutto questo, perché nel calcio c’è un consistente andirivieni: il Torino l’anno scorso ha cambiato 21 giocatori su 25, tra mercato estivo e invernale; i calciatori cambiano di continuo. Se poi sono stranieri la fatica aumenta, perché spesso gli atleti provengono da culture diverse e si trovano immersi in un mondo nuovo. Così tutto è ancora più rallentato e rischia di essere precario, però si può sempre lasciare il segno: molti giocatori di 25 anni fa che si sono fermati un solo anno, compresi stranieri, continuano a cercarmi».

4 Agosto 2015 | 07:50
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